Non sarà facile, per i futuri storici, inquadrare la presidenza di Barack Obama, che, piaccia o no, ha già conquistato un suo posto nella storia. E’ infatti il primo nero ad aver messo il suo spazzolino da denti alla Casa Bianca. Anche se una retorica a noi cara, quella del Frank Capra di “Mister Smith va a Washington”, dice che quello è il paese dalle mille opportunità, come dimenticare che solo sessant’anni fa Rosa Louise Parks viene incarcerata per essersi seduta nella fila dell’autobus riservata ai bianchi? Obama è riuscito a essere presidente due volte, e questo è già storia.
Si può obiettare che “essere” storia non equivale a essere “buona storia”. Verissimo; e anche la Presidenza Obama è segnata da una quantità di episodi e fatti discutibili, che saranno discussi; non è detto che quello che oggi appare positivo lo sia davvero.
Contraddittoria, fumosa, indecisa al massimo, per esempio, è stata (e continua a essere), la posizione assunta per quel che riguarda la crisi in Siria. Per quel che riguarda la lotta al terrorismo di matrice islamica, anche qui: tante le indecisioni, molti gli errori. Lo sdoganamento dell’Iran, per esempio: dal punto di vista tattico forse si può parlare di successo; ma la tattica senza una robusta strategia e una “visione” non porta lontano. A fronte dei tanti entusiasmi, meglio optare per una più pragmatica prudenza; nutrire speranza non significa “essere” speranza. Comunque, visto che si è guadagnato tempo, si dovrebbe cercare di mettere a frutto questa opportunità per aiutare e sostenere tutti i movimenti che nei paesi del Medio Oriente e nella parte africana del Mediterraneo si battono per i diritti umani e lo Stato di diritto. Se è vero che è illusorio, velleitario, pericoloso voler “esportare” la democrazia alla George W. Bush, è anche vero che si può nutrirla, aiutarla a crescere, la democrazia: là dove germoglia (e non accade solo in Tunisia). Obama, e chi gli succederà, non dovrebbero sciupare questa opportunità.
Lo stesso discorso può essere fatto per Cuba: il ripristino delle relazioni diplomatiche, la fine dell’embargo non dovrebbe comportare solo business, anche se solo gli affari sembrano essere il motore del tutto (oltre al ruolo che gioca e intende giocare il Vaticano: a Cuba e in tutto il Sud e Centro America). Yoani Sanchez, forse, è di umore eccessivamente nero quando osserva che le organizzazioni per i diritti umani non sono state minimamente coinvolte in questo processo, e mette in guardia dal rischio che si affermi un capitalismo militare di stato, il cui controllo sarà ferreo quanto lo è stato il castrismo. Però, al momento, non si registrano grandi novità.
Avremo tempo e modo di misurare tutto ciò, e verificare se le speranze dell’oggi diverranno “fatti” o si tramuteranno in illusioni. Subito, però, si può riconoscere che i “gesti”, per quanto simbolici, hanno un loro peso, una loro importanza.
Giunto al crepuscolo della sua presidenza, non più oberato dal problema di doversi garantire la rielezione, Obama, evidentemente, si sente più libero, “leggero”; e si pone un obiettivo ambizioso: riformare il sistema della giustizia penale del suo paese. E’ noto che le prigioni americane sono affollate come nessun altro paese democratico al mondo; gli Stati Uniti “ospitano” il 5 per cento della popolazione mondiale, e contemporaneamente il 20 per cento di quella carceraria: 2,2 milioni di detenuti. Una vasta letteratura e cinematografia documentano come le prigioni americane siano il regno di ogni tipo di abuso, violenza e brutalità. Eppure, sembra incredibile: di tutti i 44 presidenti degli Stati Uniti, solo Obama ha compiuto il passo simbolico di visitare un carcere, di andare a toccare con mano quella tremenda realtà. Neppure un “padre” come Abramo Lincoln, un presidente “caritatevole” come Jimmy Carter, un presidente di fiuto come Bill Clinton, l’hanno fatto… Nessuno. Vero è che noi italiani per primi non possiamo dare, al riguardo, lezioni a nessuno: di tutti i presidenti italiani, solo Giorgio Napolitano ha visitato le carceri italiane (e mandato al Parlamento un messaggio costituzionale che andrebbe diffuso nelle scuole, nei palazzi di Giustizia).
Per tornare a Obama: al Congresso, a chi si candida alla sua successione, al suo Paese il Presidente dice che si perdono intere generazioni, che migliaia e migliaia di giovani finiscono in galera, e non vengono più recuperati. “Io non ho simpatia per chi commette crimini violenti”, sillaba Obama. “Però dobbiamo riflettere se queste condanne così lunghe, spesso a vita, siano la maniera migliore di affrontare i reati di altro genere”; e ha fatto quello che tanti politici italiani pur potendolo fare, non fanno: entrare in una cella. Dopo averla vista si è chiesto: “E’ lì che dovrebbero vivere tre adulti?”.
Lo ha toccato con mano. Tardi, certo; ma alla fine lo ha fatto. Al Congresso manda la richiesta di approvare una legge che abbassi le sentenze minime per i reati non violenti; annuncia programmi di prevenzione della criminalità e di recupero; chiede la fine alla tolleranza per gli abusi, le violenze e gli stupri nelle prigioni. Impresa non facile: il Congresso è a maggioranza repubblicana, già si respira aria di campagna elettorale, demagogia e populismo la fanno da padrone: basta vedere la “presa” della demenziale campagna di un Donald Trump, al cui confronto Matteo Salvini e Marine Le Pen sono mammolette. Però, questa volta Obama fa quello che è giusto fare, quello che da una democrazia come quella americana è giusto, doveroso attendersi.
In Philadelphia, President Obama delivers remarks at the NAACP's 106th national convention — outlining the unfairness in much of our criminal justice system, and highlighting ideas of reform while keeping Americans safe and secure. July 14, 2015.