Bisogna stare attenti a usare le parole, a prescindere dalle proprie convinzioni su un determinato argomento, altrimenti si svuota il linguaggio della sua capacità di imporre coerenza e razionalità ai dibattiti e si accetta la degenerazione della politica in gossip, l'arma vincente del liberismo.
I media sono in questo senso davvero dei cattivi maestri: “Milano a ferro e fuoco” hanno intitolato La Repubblica e quasi tutti i quotidiani. Questa la definizione dell’espressione sul Grande dizionario della lingua italiana: “sterminio e devastazione per mezzo di armi e di incendi”. Applicarla a incidenti che non hanno provocato neanche un ferito e in cui a bruciare sono state solo alcune automobili è puro sensazionalismo, deliberata manipolazione. I giornalisti di un paio di generazioni fa, alla Montanelli, si sarebbero ricordatii di Tito Livio, che nella sua storia di Roma usò varie volte la locuzione, sempre per indicare una rovina totale: “Ferro flammaque omnia absunta”. E avrebbero dunque evitato di inflazionarne e banalizzarne il significato: perché è molto rischioso gridare al lupo quando il lupo non c’è.
Ma oggi i classici non li legge nessuno, tanto meno gli arrampicatori sociali e i venditori di fumo mediatico. E la gente si è abituata a quel fumo. Per molti le uniche emozioni sono a telecomando: di breve durata, non lasciano traccia (non sono vere esperienze ma loro surrogati virtuali, una sorta di pornografia dell’informazione), però possono essere ripetute frequentemente, oggi per una decapitazione in Siria (purché di un occidentale), domani per un’epidemia in Africa (purché ci sia almeno un caso in Europa), ieri era una strage in Ucraina (purché attribuibile ai filorussi). L’empatia si consuma su avvenimenti remoti e non ne resta più per quelli locali e concreti: il precetto evangelico di amare il proprio prossimo (con gli impliciti rischi di costruire un rapporto di solidarietà, addirittura un partito) è stato sostituito dal precetto liberista di amare solo chi sia lontano, a distanza di sicurezza da pericolose forme di aggregazione e responsabilità.
In molti articoli e in moltissimi post ho letto l'accusa ai black bloc milanesi di avere "distrutto la città". Un'iperbole, ma non sembra che tutti quelli che l'hanno usata se ne rendessero conto: e purtroppo credere alle figure retoriche, trasformarle in dati di fatto, è l’indice del successo della propaganda. Per distruggere una città serve un inferno di fuoco come quello atomico su Hiroshima o quello convenzionale su Dresda; certo non un paio di molotov. Oppure serve, molto più frequentemente, una speculazione edilizia impunita e incontrollata. Al di là della seconda guerra mondiale e di qualche terremoto, gli unici veri, enormi, irreversibili danni subìti dalle città italiane sono stati provocati dal capitalismo, con la sistematica tolleranza per l'abusivismo, con piani urbanistici demenziali o disattesi, con la disneyficazione di alcune aree e l'abbandono di altre. Tutti i cortei, pacifici o accompagnati da scontri, che sono avvenuti nell'ultimo secolo, hanno provocato, nel loro insieme, danni irrilevanti al patrimonio culturale e architettonico e molto limitati alla proprietà pubblica e privata. Niente a che vedere con le gravissime conseguenze della cementificazione, dell'incuria ambientale (pensate solo all'inondazione in Liguria di pochi mesi fa), del degrado di interi quartieri, della canalizzazione delle risorse su progetti di facciata (tipo l'Expo) invece che sulla tutela del territorio.
I black bloc non hanno lasciato nemmeno uno sgraffio permanente sul volto di Milano, come i neri in rivolta non l'hanno lasciato su quello di Baltimora; le oscene cicatrici che vediamo, e che non potranno essere cancellate, le ha fatte la cieca avidità di un sistema che al denaro ha sacrificato le tradizioni, i valori, la storia e il senso di appartenenza e che fa finta di ricordarsene solo quando ragazzi senza passato e senza futuro si ribellano come possono, come sanno.