L'annuncio della morte di Pino Daniele mi è giunto domenica in tarda serata quando in Italia erano circa le quattro del mattino.
Il mio primo impulso è stato quello di alzarmi e di strillare la notizia al resto della mia famiglia: "E' morto Pino Daniele!…". Poi però mi sono reso conto che loro, questa mia famiglia americana, di chi sia Pino Daniele non hanno la più pallida idea.
E' il destino di noi cittadini di Atlantide: le nostre radici sono lontane e questa lontananza spesso si traduce in un senso di solitudine, paradossalmente, anche quando siamo circondati dai nostri stessi familiari. Questo è stato precisamente uno di quei momenti in cui questa lontananza è diventata concreta, palpabile, fisica.
Non potendone parlare con i miei, ho iniziato a guardare i siti dei giornali italiani dove la notizia non era ancora apparsa, cosa che mi ha fatto sperare in una burla; in uno di quegli scherzi di cattivo gusto che si diffondono di tanto in tanto sulla rete. Invece, dopo un paio di tentativi, ho trovato la triste conferma sulla pagina de La Stampa di Torino.
Il titolo diceva più o meno: "Muore per infarto a 59 anni il cantautore italiano Pino Daniele" e, ancora una volta, in maniera del tutto istintiva, il termine "cantautore italiano" mi è sembrato fuori luogo.
"Cantautore napoletano…" ho sussurrato tra me e me.
Un cantautore che è riuscito ad affermarsi oltre i confini della sua città fondendo la tradizione musicale napoletana con i ritmi americani blues appresi nei locali frequentati dalle truppe NATO e raggiungendo una notorietà inedita per un italiano nel mondo musicale anglosassone.
Un artista che ha condiviso il palcoscenico con alcuni tra i nomi più autorevoli della musica di mezzo mondo. Che ha ristabilito, almeno artisticamente, il blasone di una Napoli capitale.
Proprio in relazione al rapporto con la sua città, i commenti della stampa italiana sulla morte di Pino Daniele hanno prevedibilmente parlato di lui come espressione di "quella Napoli migliore": la Napoli della musica, del teatro dell'arte. Insomma di quella "parte buona" della città da contrapporre a quella violenta dei furti, della Camorra e del degrado.
In parte, sarà anche vero anche se, noi napoletani, sappiamo bene che le due cose non si possono veramente separare; che l'una è in qualche modo legata all'altra.
Una realtà questa che, per quelli come me che si sono lasciati Napoli alle spalle e hanno attraversato l'Atlantico, é riconoscibile, in una certa misura, anche negli Stati Uniti.
In America, da anni, uno dei tanti aspetti del dibattito sociale e dei contrasti razziali tra bianchi e neri si basa sullo stereotipo dei bianchi che lavorano duro e pagano le tasse e dei neri "lavativi" che di lavorare non ne vogliono sapere e che invece preferiscono sfruttare il sistema e i programmi di assistenza sociale.
Una caratterizzazione tristemente familiare anche per noi napoletani e meridionali in genere, da troppo tempo prigionieri di una dicotomia simile: eterni "scrocconi", pronti ad appropriarsi e a sperperare i frutti della alacre produttività nordista.
Neri a metà.
Ma, senza entrare nel merito di quanto, del perché e di cosa ci sia di vero in queste caratterizzazioni, vale comunque la pena di ricordare che i contributi che si elargiscono ad una civiltà non sono solo quantificabili in termini di prodotto interno lordo; in tonnellaggio di merce prodotta. La creatività non si esprime solo ed esclusivamente in termini di innovazione tecnologica.
Le civiltà crescono e si arricchiscono anche grazie ad un verso poetico, ad un brano letterario, alle note di una canzone e questo vale per l'Italia, per l'America e per il mondo intero.
E' triste che, troppo spesso, Napoli si soffermi a riflettere sul suo ingente contributo di civiltà solo in occasione della scomparsa di napoletani illustri: i Daniele, i Troisi, i De Curtis, i De Filippo, i De Sica e di tutti gli altri sparsi per il mondo che, famosi o meno, consapevolmente o meno, si sono rifiutati di adeguarsi allo stereotipo e che, malgrado le circostanze sociali oggettivamente difficili della città, continuano ostinatamente e misteriosamente ad emergere, a farsi sentire, a fare la differenza.
Anche questa è "produttività" e, a dispetto dei soliti mille problemi che affliggono Napoli, occorre prendere atto di questo e puntare l'indice anche sui mille successi di questa città e di questo popolo straordinario sempre bisognoso di riflessione e di una buona dose di autocritica ma che, ogni tanto, deve anche imparare a fermarsi per raccogliere, attraverso i suoi ambasciatori nel mondo, gli applausi che si merita.