Bivona, angolo dell’entroterra agrigentino, ottobre 1999: la mafia avvolge in grosse lingue di fuoco la pala meccanica dell’imprenditore edile Ignazio Cutrò. È il primo attentato di una lunga catena ai danni dell’uomo, reo di non essersi piegato al volere dei malavitosi del luogo. Quindici anni dopo, intorno a Ignazio si continua a fare terra bruciata, ma la mano non è più solo quella di Cosa Nostra.
Lo scenario non cambia, Cutrò è ancora a Bivona, dopo aver reso testimonianze preziose, costate nel 2011 oltre 60 anni di carcere ai fratelli mafiosi della famiglia Panepinto. Sebbene vittima di minacce, l’imprenditore ha scelto di rimanere, preferendo la resistenza in terra natìa all’esilio di una vita inventata altrove. Quanto aveva duramente costruito negli anni, tuttavia, è stato spazzato via dalla sua assunzione di responsabilità.
La battaglia di Ignazio contro il sentire mafioso a oggi può dirsi impari: la ditta che un tempo godeva di buona salute è sul lastrico, schiacciata dai debiti dovuti alla mancanza di commesse, mentre la sua dignità di uomo è messa a dura prova dalla vergogna, che non gli consente più di guardare i figli negli occhi. Se per strada i cittadini gli negano il saluto, i rappresentanti delle istituzioni, nelle quali strenuamente ha creduto, gli assicurano un sostegno che nei fatti tarda ad arrivare.
A poco valgono le numerose interviste rilasciate a trasmissioni italiane, da Le Iene a Presa Diretta, e a testate straniere. La storia di Ignazio diventa anche un libro, lo scorso febbraio, dal titolo Abbiamo vinto noi. Storia di Ignazio Cutrò l'imprenditore che ha detto no alla mafia. Tuttavia, Cutrò ottiene in larga misura soltanto sterili proclami di solidarietà e promesse mediatiche di pronta risoluzione della sua vicenda. Promesse cui non seguono i fatti.
Pochi mesi fa, dopo essersi incatenato davanti al Ministero dell’Interno insieme ad altri due testimoni, aveva lanciato il suo ultimatum: “Se lo Stato non mi aiuterà, venderò tutto e andrò all’estero”. Una condizione drammatica, che rischia di diventare disincentivo per chi vuole ribellarsi alla mafia senza sentirsi costretto ad andare via.
“La partenza di Ignazio segnerebbe certamente una sconfitta per le istituzioni. Lo Stato si sta muovendo per dargli delle risposte” ha commentato Davide Mattiello, coordinatore del V Comitato della Commissione Antimafia che si occupa di testimoni. Il deputato ha appena annunciato la prossima presentazione di una legge ad hoc per i testimoni di giustizia (fino a poco tempo fa impropriamente identificati come collaboratori e assimilati ai pentiti di mafia) che contempli anche la situazione di Cutrò.
I testimoni inseriti nei programmi di protezione in Italia sono 80. Ignazio, in quanto testimone in loco, è sottoposto però a «speciali misure»: per lui la legge prevede unicamente una tutela di tipo militare, ovvero l'assegnazione di una scorta, e nessuna forma di assistenza economica che spetta invece a chi sceglie la località protetta, come l'accesso a mutui agevolati e una mensilità a parziale risarcimento del lavoro perduto. "La ratio è che restando a casa propria si possa continuare a produrre reddito" ha spiegato a La Voce il deputato indipendente del Partito Democratico.
La proposta di legge che dovrà essere votata in Parlamento si propone di superare tale distinzione, per garantire un sostegno economico (e sociale) anche ai testimoni che rimangono in località d’origine. Spesso, per loro, la realtà è infatti ben diversa da quella tratteggiata sulla carta, come nel caso di Ignazio, vittima di isolamento, stigmatizzazione e abbandono. Impossibile per lui far ripartire la propria impresa senza sostegno.
"Negli anni sono arrivati anche a tagliarmi la luce e attualmente ho difficoltà a fare la spesa e a far studiare i miei figli, di 21 e 24 anni” racconta Ignazio, aggiungendo di avere chiesto un mutuo, non concessogli in mancanza di garanzie. “Prima delle denunce avevo il massimo affidamento bancario” dichiara in un misto di amarezza e rabbia. “Recentemente mi sono state consegnate nuove cartelle esattoriali ma ancora, dopo quattro anni dalla richiesta, aspetto il finanziamento dell'antiracket che mi era stato promesso”.
Le misure di sicurezza inoltre rimangono precarie: le telecamere di videosorveglianza installate davanti la sua casa (in campagna) per proteggere Ignazio e la famiglia non sono sufficienti a garantire la loro incolumità di notte, racconta ancora l’imprenditore, che è anche presidente dell’Associazione nazionale testimoni di giustizia.
In tale veste si è fatto promotore di una legge, approvata quest’estate in Sicilia, che ha esteso ai testimoni i benefici delle vittime di mafia, prevedendo la possibilità di una loro assunzione nella pubblica amministrazione. Si attende ora la sua applicazione. "È una battaglia che ho scelto di portare avanti per ridare dignità ai cittadini onesti, che vogliono sentirsi utili alla società" spiega Ignazio, il quale però ammette che personalmente la sua vittoria sarebbe riuscire a far ripartire l'impresa di Bivona, tornando a fare il lavoro che ama.
Il caso Cutrò, secondo Mattiello, è “figlio dell’ignavia dei cittadini che attorno a lui hanno creato il vuoto”. Nel caso di denunce di commercianti e imprenditori, prosegue il deputato, il problema è spesso a monte: va evitata una loro sovraesposizione sin dal momento in cui scelgono di denunciare e durante i processi.
Mattiello si sofferma, quindi, sulla necessità di una migliore cooperazione tra magistratura e forze dell'ordine e di un pieno e corretto funzionamento di organi come la Direzione Investigativa Antimafia e la Direzione Nazionale Antimafia, "pensati da Giovanni Falcone come strumenti unici ed efficaci nel contrasto alla criminalità organizzata".
Fortunatamente, sottolinea, esistono casi di professionisti che denunciano e che vengono tutelati, uomini e donne che grazie anche al sostegno di realtà come Addiopizzo riescono a riappropriarsi della propria vita e della propria dignità.
Dignità che nonostante il suo vissuto, Ignazio Cutrò continua a reclamare, difendendo la sua decisione e prendendosela con la burocrazia, che non esita a definire “mafiosa”, poiché “uccide chi testimonia più di Cosa Nostra”. E conclude: “Sarebbe stato più facile pagare il pizzo ma rifarei la scelta che ho fatto, per dare un esempio positivo. Sono i mafiosi a doversene andare, non noi”.