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September 10, 2014
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Parole vuote e parole pietre

Francesco ErspamerbyFrancesco Erspamer
Time: 4 mins read

Banalmente chic scegliere una radio francese per criticare i radical chic italiani. “I radical chic in Italia hanno deciso che io non sono di sinistra”, ha tuonato Renzi da Parigi. Chissà a chi si riferiva: credevo che fossero estinti da almeno un paio di decenni.

Di radical chic parlò per la prima volta lo scrittore Tom Wolfe, quello del Falò delle vanità, nel 1970, riferendosi a una forma di snobismo caratteristica dell'epoca della contro-cultura, prima del grande riflusso culturale nell’individualismo e del trionfo economico del neocapitalista liberista. I primi a venire cooptati dal sistema furono proprio i radical chic, facilmente riciclati come celebrity in cambio di ciò che da sempre desideravano: denaro e attenzione. Questo, già negli anni ottanta. Ma è tipico dei demagoghi attaccare persone o ideologie che ormai non hanno alcun potere o rilevanza: e a posteriori, senza rischiare nulla, attribuirsi il merito della loro rottamazione.

Per continuare a giocare la parte del rottamatore, pur essendo da sempre un conservatore, Renzi deve far credere che il mondo sia sempre quello della sua gioventù. Ci spiega: “Avevo 14 anni quando mia madre guardava in TV il muro di Berlino che cadeva. E ricordo che mi parlava del suo mito politico, che non era un comunista italiano ma era Bob Kennedy”.

Un inciso: perché mai sua madre, che era ed è sempre stata un’integralista cattolica, fervente antiabortista della prima ora, avrebbe dovuto avere un comunista come mito politico? Ovvio che fosse un Kennedy, cattolico, giovane, un simbolo dell’America libera che contrastava il totalitarismo materialista dell’Unione sovietica (allora il materialismo era un peccato capitale: non come adesso, che è una grande conquista del mercato). Che poi fossero stati uccisi subito, sia Bob che JFK, era ancora più vantaggioso: i martiri non fanno politica ma possono essere usati per fare la politica che gli si vuole attribuire.

Renzi fa finta che le battaglie da combattere siano sempre quelle: che ci sia ancora un muro di Berlino da abbattere. In modo che la gente non si accorga che le grandi speranze generate da quell’evento sono state tradite, precisamente da conservatori come lui e sua madre, che aspettavano nell’ombra (e davanti alla TV) l’occasione per approfittare dei risultati di lotte portate avanti (nelle piazze) da altri.

Che i radicali non fossero necessariamente di sinistra lo hanno dimostrato, in Italia, le tristi vicende di Marco Pannella e Emma Bonino, per anni fiancheggiatori di Berlusconi. Ovunque in Occidente, la deriva verso politiche radicali di nicchia (quelle che in inglese si chiamano “single-cause issues”) ha oggettivamente indebolito il movimento progressista inducendo la gente a rinunciare alla solidarietà e alla ricerca di faticosi compromessi, disciplina di partito e ideali collettivi e applicare invece anche nell’impegno sociale i principi fondamentali del liberismo, ossia la concorrenza, l’individualismo, il profitto personale. Quanto agli chic, il solo fatto di ambire alla distinzione (esplicitata dalle griffe e dagli status symbol), li rende estranei alla sinistra: la cui unica irrinunciabile caratteristica è la priorità assegnata all’eguaglianza, in particolare quella economica.

Però il fatto che i radical chic non fossero di sinistra non significa che lo sia l’antiradicale e poco chic Renzi. Ce lo dice lui stesso (senza saperlo, come spesso gli capita): “La sinistra deve cambiare se vuole rimanere sinistra”. Se invece di SMS e tweet leggesse anche qualche libro avrebbe evitato una frase del genere. Perché ricorda da vicino quella, una volta famosa, del Gattopardo: “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”. Che è la consueta strategia dei conservatori, il loro marchio DOC (e DC): prevenire reali riforme facendone di fittizie, superficiali e inutili, che lascino inalterati gli effettivi rapporti di potere. Renzi è il burattino italiano del grande capitalismo globalista, che per continuare a espandersi dopo avere dilapidato immense risorse naturali e umane accumulate in milioni di anni dalla natura e in millenni dalle civiltà, ha ora bisogno di appropriarsi di tutti i residui beni comuni e sociali, inclusi quelli che aveva concesso alla gente per tenerla buona e lontana dalla tentazione del comunismo.

Per fermare Renzi e il capitalismo globalista di certo non basterebbero gli ingenui e ambigui radical chic di un tempo andato per sempre; che peraltro si sarebbero venduti immediatamente per un’apparizione in un talkshow ad alto indice di ascolto. Servono rigore, organizzazione, chiarezza, vigilanza, disciplina. Anche a livello linguistico. Il liberismo vuole assuefarci a discorsi vuoti, a cambiamenti solo a livello d’immagine, e così convincerci che la conversazione (etimologicamente, “trovarsi insieme”) e la compassione (“patire insieme”) siano inutili, che le comunità e il senso di appartenenza e di collaborazione siano illusioni, che l’empatia e l’impegno siano segni di debolezza e l’unica cosa che conta sia il bisogno di prevalere, di affermarsi, di avere di più.

Questa guerra la si vince o la si perde a livello di media, di comunicazione, di linguaggio. Contro la deriva nella superficialità le parole della sinistra devono tornare a essere pietre.

 

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Francesco Erspamer

Francesco Erspamer

Nato a Bari, cresciuto a Parma e in Trentino, laureato a Roma, professore a Harvard. Mi interesso di letteratura, politica, storia delle idee e cambiamenti culturali. Insegno corsi su estetica, romanzo moderno e contemporaneo, Rinascimento, calcio. Di recente ho scritto: La creazione del passato, Sulla modernità culturale e paura di cambiare, Crisi e critica del concetto di cultura. Come Gramsci, penso che al pessimismo della ragione occorra accompagnare l’ottimismo della volontà, e come James Baldwin, che la libertà non la si possa ricevere in dono: bisogna prendersela.

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