In Italia non funziona niente perché la gente s’incazza solo quando qualcosa non funziona, come se il buon funzionamento delle cose e la civiltà fossero condizioni naturali e automatiche, che non richiedano attenzione o impegno, e dunque il malfunzionamento fosse un indice di malvagità, direttamente derivato da una colpa (corruzione, incapacità). Invece il malfunzionamento è lo stato normale delle cose, così come la barbarie. È per farle funzionare, ossia per edificare una civiltà, che serve uno sforzo: di integrità e di efficienza ma anche di vigilanza e intransigenza, e neppure eccezionale bensì quotidiano. Da parte degli operatori ma soprattutto della gente, degli utenti. In altre parole, è inutile lamentarsi che la sanità e le scuole e i trasporti facciano schifo se per decenni ci si è adagiati nella totale indifferenza o nella rassegnazione, rinunciando alla lotta, alla protesta e soprattutto a punire, anche elettoralmente, chi contribuiva allo sfascio del settore pubblico e della società civile.
Meglio ammettere che dietro quell’indifferenza e quella rassegnazione c’erano e ci sono piccoli interessi: la possibilità di farsi qualche giorno di vacanza in più con la scusa di una storta a un piede, o di parcheggiare sistematicamente in sosta vietata, o di ottenere un posto di lavoro a un figlio o a un amico grazie a una raccomandazione, o di commettere un piccolo abuso edilizio senza subire conseguenze, o di non pagare qualche tassa. Lo sfascio qualche vantaggio lo dà. Ma è patetico illudersi che non abbia conseguenze, o far finta di non accorgersi che al malfunzionamento si torna per default non appena si giustifichino i comportamenti immorali e le scorciatoie di comodo.
Capisco che non sia semplice uscire dal circolo vizioso: trovare la forza di rinunciare ai privilegi, magari minimi, quando gli altri non lo fanno; o mettersi contro tutti pretendendo un’onestà, una trasparenza e un’affidabilità poco di moda. I cambiamenti culturali sono così difficili che spesso avvengono solo attraverso violente rivoluzioni invece che graduali riforme. Ma è per questo che esiste la democrazia e che s’indicono elezioni. Per dare la possibilità alla gente di esprimere liberamente e in segreto qualsiasi esigenza, anche un po’ avventurista e incoerente con il proprio comportamento; e creare così condizioni più favorevoli a un cambiamento. Bisogna però usarle, le elezioni.
Il trucco con cui la Democrazia Cristiana restò al potere per mezzo secolo fu quello dell’alternativa impossibile: se avesse vinto l’opposizione sarebbe finita la democrazia. Un paradosso: per mantenere la possibilità (teorica) di cambiare occorreva rinunciare (in pratica) a cambiare. La Storia dovrebbe avere dimostrato che era una cazzata: negli anni Settanta l’Italia non sarebbe comunque diventata un regime totalitario. Ma la tragedia è che anche dopo la fine dell’Unione Sovietica e del comunismo i post-democristiani continuano con quel ricatto: e il voto continua a non essere utilizzato in maniera attiva, propositiva, provocatoria; solo passivamente, per confermare decisioni già prese dai potenti e dai ricchi (e dai loro media), o negativamente, per porre il veto a trasformazioni che possano minacciare prerogative consolidate.
Occorre in qualche modo uscire da questa palude. Occorre rendersi conto che a qualcosa bisognerà rinunciare, tutti, ma che è un prezzo che è giusto e conveniente pagare per il buon funzionamento della società. Occorre smettere di dare ascolto a quella ristretta minoranza (al massimo un 20%) che sulla deregulation e sul malfunzionamento ha costruito la propria prosperità. La democrazia non è in pericolo, di certo non nella forma annacquata oggi praticata. Tanto vale prendersi qualche responsabilità, correre qualche rischio. Perché di sicuro le cose non cominceranno a funzionare da sole e neppure grazie alle chiacchiere di chi spaccia il liberismo per una rivoluzione e la governabilità per una necessità, allo scopo di far sì che tutto resti come prima.