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October 21, 2013
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Odifreddi, la logica, la shoah

Marco PontonibyMarco Pontoni
Time: 5 mins read

I fatti sono questi. Sul blog del matematico Piergiorgio Odifreddi, noto per i suoi libri, le sue collaborazioni con la stampa, il suo ateismo militante, un certo hommequirit (questo il nickname), argomenta che le camere a gas non sono mai esistite, che i campi di sterminio erano in realtà campi di lavoro forzato, che le testimonianze emerse a Norimberga sono un prodotto della macchina propagandistica dei vincitori. Si tratta di una variante del solito negazionismo, che in rete dilaga (provate a digitare parole come “ebreo” su un motore di ricerca e ne vedrete delle belle). Una posizione che non tiene conto delle verità storiche abbondantemente acquisite, dagli atti della conferenza di Wannsee, nel corso della quale fu pianificata la “soluzione finale” (in parte anche attraverso il lavoro forzato, questo è vero, perché l’impiego del gas non era ancora stato completamente messo a punto) fino alle tante testimonianze raccolte dopo la Seconda guerra mondiale, compresa quella di Primo Levi, naturalmente.

Tutto finirebbe qui se non fosse che Odifreddi rincara la dose. «Su Norimberga – scrive – confesso di essere molto vicino alle sue posizioni. Il processo è stato un’opera di propaganda. I processati hanno dichiarato, con lapalissiana evidenza, che se la guerra fosse andata diversamente, a essere processati per crimini di guerra sarebbero stati gli alleati». E aggiunge: «Non entro nello specifico delle camere a gas, perché di esse “so” appunto soltanto ciò che mi è stato fornito dal “ministero della propaganda” alleato nel dopoguerra. E non avendo mai fatto ricerche al proposito, e non essendo comunque uno storico, non posso far altro che “uniformarmi” all’opinione comune. Ma almeno sono cosciente del fatto che di opinione si tratti».

Il sito di Odifreddi è ospitato da Repubblica. Il che amplifica enormemente la polemica. Odifreddi viene accusato di razzismo e negazionismo, non solo da tanti utenti della rete ma anche da autorevoli commentatori e direttori di testata. Ad essi il matematico risponde con un post sulla natura della verità, il quale postula la superiorità delle verità matematiche su tutte le altre, e sottintende in sostanza l’ignoranza delle leggi della logica da parte di chi lo critica. Un passaggio della sua replica recita: “Si parte dalle verità matematiche, che sono dimostrate in maniera logica e controllabili da chiunque abbia un’alfabetizzazione adeguata. Si passa alle verità scientifiche, che non sono mai completamente assodate, e sempre sottoposte a continue verifiche sperimentali, spesso effettuabili solo da chi abbia adeguati mezzi tecnologici. Si arriva poi alle verità storiche, che si basano su testimonianze di varia mano, relative a fatti unici e non riproducibili, e che dunque non possono mai avere il grado di affidabilità delle verità scientifiche, per non parlare di quelle matematiche”.

Anche qui, se vogliamo, niente di nuovo sotto il sole. Le scienze umane sono le sorelle povere di quelle matematico-scientifiche, ergo le loro acquisizioni sono opinabili e in varia misura fideistiche. Ma, a prescindere dalla debolezza (insolita, per l’uomo) della replica, possiamo dire di essere in presenza dell’ennesimo caso di “persecuzione mediatica” nei confronti di una opinione che si discosta dal mainstream politicamente corretto? A mio giudizio, non è così. La posizione di Odifreddi è debole, mi pare, innanzitutto sul piano filosofico. Se c’è un pilastro su cui poggia la filosofia della scienza è proprio quello per il quale verità dimostrate, con procedure corrette e verificate scientificamente (non necessariamente in laboratorio, però, l’astronomia è una disciplina di laboratorio), devono essere considerate come acquisite. Solo qualche mente avventurosa (Paul Feyerabend e il suo anarchismo metodologico) ha messo in discussione questo assunto. Del resto, se le cose fossero diverse, non si avrebbe mai progresso cumulativo delle conoscenze. In altre parole, ogni volta dovremmo tornare all’anno zero e ripartire da lì. Odifreddi sostiene che, non avendo fatto di persona delle ricerche storiche sull’argomento, non può che riferire idee altrui; ergo, le sue sono convinzioni di seconda mano. Ma è così per tutte le discipline, che partono dalle leggi già dimostrate da altri (empiricamente, se possibile, ovvero in laboratorio) per spingersi “più in là”. Il dibattito storico sulle camere a gas e le altre pratiche utilizzate per sterminare gli ebrei (assieme ai dissidenti politici, ai disabili, agli omosessuali ecc.) potrà certamente arricchirsi in futuro di ulteriori dettagli. Ma il quadro è stato definito, credo in maniera indiscutibile, una volta per tutte. Non a caso il dibattito storiografico recente si è orientato in altre direzioni, soprattutto cercando di far luce su una questione fondamentale: la società civile (tedesca, ma per estensione anche italiana, essendo stati noi italiani complici dei nazisti dopo il varo delle leggi razziali) sapeva cosa avveniva nei campi di sterminio?

Questo sul piano epistemologico. Ma c’è anche un altro piano, un piano umano, che prescinde dalle discussioni accademiche e dalla spocchia degli scienziati. C’è un piano umano, vivaddio. Odifreddi avrebbe bisogno di fare delle ricerche storiche per condannare i frutti avvelenati delle aberranti dottrine della razza naziste e fasciste? Non gli basta ciò che già sappiamo? Non gli basta visitare, poniamo, il ghetto di Roma, o quello di Bologna? Parlare con quanti conservano ancora la memoria del campo di concentramento di Bolzano, da dove gli ebrei italiani transitarono in gran numero prima di essere ingoiati dai lager? E quanta ricerca dovrebbe fare Odifreddi per condannare, poniamo, l’apartheid sudafricano, che fu un frutto tardivo di quelle dottrine? Quanti libri dovrebbe leggere per esprimersi su Srebrenica o su Nanchino? Davvero Odifreddi pensa che qualsiasi conoscenza “di seconda mano” sia opinabile? O me sembra una convinzione orribile. L’Europa che conosciamo, l’Europa in cui è cresciuto Odifreddi, poggia su quel mare di sangue. Poggia sulla coscienza della Shoah, dell’Olocausto, della Vernichtung, più che su ogni altra base (certo, se avessero vinto “gli altri”, oggi le fondamenta del vecchio continente sarebbero altre, su questo concordo pienamente con il matematico). Insomma, quante piaghe dovrebbe tastare con le sue dita Odifreddi per convincersene? Non ci è dato saperlo. Una cosa sappiamo: che ovunque in Italia vi sono targhe che ricordano gli ebrei rastrellati, deportati, mandati a morire nei campi della morte. I loro nomi sono oggi nello Yad Vashem, il museo dell’Olocausto in Israele.

Un’ultima osservazione: come giornalista ho visitato più volte sia Israele sia la Cisgiordania. Sono stato a Lod, città tristemente famosa per l’epurazione della popolazione araba dopo il 1948, ovvero dopo la nascita dello stato di Israele. Sono stato a Ramallah, ho visto il Muro e ho viaggiato con i palestinesi lungo le assurde, tortuose strade che sono costretti a percorrere tutti i giorni per spostarsi da una parte all’altra dei Territori, a causa delle leggi israeliane. Pur non avendo fatto ricerche storiche approfondite – non tutti abbiamo questo privilegio, di poter disporre pienamente del nostro tempo – non ho nessun problema nel solidarizzare, in cuor mio, e per quanto poco ciò possa significare, con il popolo palestinese, palesemente oppresso. Molti europei la pensano allo stesso modo. L'Italia, lo scorso anno,  ha votato a favore della risoluzione Onu che riconosce la Palestina come Stato osservatore delle Nazioni Unite. Ha dato un dispiacere a Tel Aviv ma ha compiuto, per una volta, un atto di giustizia. Credo però che la nostra posizione – nostra come europei – nei confronti di Israele, potrà essere tanto più efficace, anche nelle sue critiche, quanto più l’Europa non recederà di un millimetro sul riconoscimento delle sue responsabilità storiche nei confronti della Shoah. Anche per questo, esternazioni come quella di Odifreddi – per quanto oziose, distratte, “leggere” esse siano – sono oltremodo dannose. 

 

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Marco Pontoni

Marco Pontoni

Sono nato in Sudtirolo 50 anni fa, terra di confine, un po' italiana e un po' tedesca. Faccio il giornalista e ho sempre avuto un feeling per la narrazione. Ho realizzato video e reportages sulla cooperazione allo sviluppo in varie parti del mondo. Finalista al Premio Calvino, ho pubblicato il romanzo Music Box e, con lo pesudonimo di Henry J. Ginsberg, la raccolta di racconti Vengo via con te, tradotta negli USA dalla Lighthouse di NYC con il titolo Run Away With Me. Ho da sempre una sconfinata passione per gli autori americani, Lou Reed, l'Africa, la fotografia, i viaggi e camminare.

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