Negare la sepoltura e le esequie ai criminali – ed anche a quelli della peggiore specie – è probabilmente un esercizio poco nobile. Ma consentirlo nelle condizioni in cui è stato fatto – o si cercato di farlo – per l’ex ufficiale nazista Erik Priebke, il boia delle Fosse Ardeatine, è parso davvero inopportuno.
Quel che è accaduto in questi giorni – senza abbandonarsi agli eccessi emotivi – è parso un affronto di non poco conto alle molte vittime dell’occupazione nazista in Italia. Alle vittime dell’eccidio organizzato dai nazisti in ritorsione all’attentato dei partigiani in Via Rasella (marzo 1944). E poi a quelle di cui, proprio nel giorno successivo ai discussi funerali, ricorreva il tragico anniversario. Parliamo del rastrellamento del ghetto ebraico di Roma, effettuato dai nazisti il 16 ottobre 1943. Una data che per la storia della comunità ebraica in Italia, e per il Paese tutto, rappresenta ancora una ferita grandissima.
Quel giorno si concluse con la deportazione di oltre mille ebrei nei campi di sterminio nazisti. E fu l’episodio che sancì un passaggio cruciale nella storia della persecuzione razziale in Italia. Per anni la storiografica ha parlato di un’applicazione blanda delle leggi razziali imposte da Mussolini nel 1938. A partire da quell’anno, gli ebrei sarebbero stati perseguitati con approssimazione e leggerezza. Con una limitazione “discreta” e “benevolente” ai loro diritti, civili, politici ed economici.
Eppure il 16 ottobre 1943 denunciò un mutamento netto della politica italiana verso gli ebrei italiani. Che parve proprio saldarsi con l’epoca precedente. Il rastrellamento nel ghetto avvenne infatti sulle basi di quelle discriminazioni di cittadini italiani d’origine ebraica che già da qualche anno erano stati ben identificati, emarginati e oggetto di misure che li avevano posti, nei fatti, ai margini della società nazionale. Come comunità separata. Se, infine, il prefetto di Roma Giuseppe Pecoraro, avesse avuto la fortuna di leggere lo straziante racconto di Giacomo De Benedetti, 16 ottobre 1943, piccolo volume che racconta il rastrellamento del ghetto, si sarebbe forse fatto qualche scrupolo in più rispetto all’imbarazzante concomitanza di date e anniversari. Quel libro straziante testimonia ancora oggi la violenza e l’umiliazione di una delle pagine più dolorose della persecuzione contro gli ebrei in Italia.
Il poco rispetto c’è stato anche nei confronti degli abitanti di Marino, piccolo comune alle porte di Roma, paese medaglia d’oro alla Resistenza. Un particolare che, forse, il prefetto di Roma, avrebbe dovuto conoscere e valutare con maggiore attenzione. Come suggerito dal sindaco eletto della piccola città dei castelli romani. Prima di imporre in stile ottocentesco – quando i prefetti erano i soli rappresentanti dello stato a livello locale – un evento che avrebbe richiesto ben altro contesto. Magari quello del paese di Priebke, la Germania. Ed eventualmente l’ospitalità in un cimitero militare, anch’esso tedesco
I morti sono tutti uguali, non c’è dubbio. Ma la riconciliazione con la storia, eventualmente il perdono tra esseri umani, passa attraverso il rispetto delle vittime. E non dando a preti negazionisti e pattuglie di nostalgici con la testa rasata la possibilità di offendere quelle stesse vittime, o il ricordo dei loro familiari. Per una seconda volta.