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December 9, 2012
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VOCI DA SARAJEVO (3)/ Donne senza paura

Paola MillibyPaola Milli
Kanita Fociak (a sinistra) e Nadira Sehovic

Kanita Fociak (a sinistra) e Nadira Sehovic

Time: 7 mins read

Fuori da ogni retorica, la guerra è un male assoluto per l’umanità tutta, è la vita che viene meno, con dolore, con strazio ineffabile, l’agonia può essere  rapida, o può non avere fine, forse coloro che sopravvivono all’evento luttuoso non cessano mai di trascorrere negli attimi infiniti di quel rivolgimento, di quel precipitare della coscienza nel buio che erano gli spari, i bombardamenti, le perdite. Ho incontrato a Sarajevo donne che non hanno avuto paura di ricordare, che non hanno cancellato, rimosso, restituendo per intero il loro vissuto, anche quando ciò ha gettato ombre nei loro sguardi e il racconto diveniva incerto.

Kanita Fociak, nata a Spalato, ha cominciato a lavorare quindici anni fa come interprete per un contingente di duemila uomini, solo militari italiani, impegnati nella missione Nato a Sarajevo. Di origini italiane da parte materna, i suoi bisnonni e trisnonni si chiamavano Brunetti, Boteri, Galineo e Stalio, Kanita rimase l’unico sostegno per la sua famiglia, due figli piccoli e i genitori anziani, intorno povertà e distruzione.

 

Come si intreccia la sua storia con l’ambiente militare?

 

«Fociak è il cognome di mio marito, di un’antica famiglia bosniaca, che non era un militare, era un semplice orafo; mio padre, invece, era militare, questa è la ragione per cui ci siamo trovati a Sarajevo, era direttore dell’Istituto Geografico Militare di tutta la Jugoslavia. Quando ho iniziato a lavorare per il contingente italiano ero in un ufficio composto solo dal genio militare, dunque ingegneri, architetti e geometri, poi io e un’altra ragazza come appoggio, entrambe ingegneri, io sono ingegnere-architetto, la mia collega era ingegnere meccanico».

Durante l’infanzia lei era a Belgrado?
«Mio padre era a Belgrado i primi anni successivi alla Seconda Guerra Mondiale, però aveva fatto l’Accademia Militare a Praga, era stato uno dei primi istruiti e preparati da poter gestire un’istituzione così seria come l’Istituto Geografico Militare, simile a quello che voi avete a Firenze, per ragioni strategiche era collocato per tutta la Jugoslavia qui a Sarajevo. Pochi anni prima del conflitto mio padre è andato in pensione, tutto era ancora molto tranquillo, però, poco prima che cominciasse la guerra in Slovenia, lui fu testimone del trasferimento di tutto il materiale riservato, anche la tipografia per stampare le mappe topografiche, tutto fu trasferito a Belgrado. Mio padre diceva sempre che l’Istituto Geografico Militare è qualcosa come occhi e orecchi dell’esercito».

Durante l’assedio di Sarajevo lei era qui?
«Sì, sono sopravvissuta a tutto l’assedio, dal primo all’ultimo giorno, i primi giorni della guerra hanno ucciso mio marito, era il ’92, la guerra cominciò il 5 aprile ufficialmente. Quando è stato colpito era in casa con me, guardavamo la televisione, cercando di capire cosa stesse accadendo fuori, avevamo già visto i primi morti per le strade, le prime bombe cadere su Sarajevo, la gente scendere in piazza per protestare contro la guerra. Le nostre autorità ci garantivano la pace, dicevano che tutto era solo un malinteso, un disguido, che tutto si sarebbe rimesso a posto, che non bisognava temere la guerra, certamente è molto più facile credere nel bene che nel male. Eravamo seduti davanti alla televisione, con le tende scure alle finestre per non far trapelare la luce, si è sentita una piccola esplosione vicinissima a noi, come fosse un petardo, però io non capivo cosa fosse successo, avevamo visto sullo schermo le immagini delle case completamente distrutte da un mortaio che era entrato dentro, vedemmo anche i morti, però la nostra stanza era intatta, ma mio marito subito si prese il ventre tra la mani, dicendo di essere finito, che non c’era più speranza per lui. Aveva quarantanove anni, non si può dar retta alla morte, soprattutto ad una morte così improvvisa!»
Sparavano da fuori la finestra?
«Dalle colline qui sopra, sparavano con le mitragliatrici di artiglieria contraerea, fu un proiettile di trenta millimetri, con tre centimetri di diametro, che ha attraversato il muro della casa a colpire mio marito».

 

Chi sparava dalle colline?

«I serbi, senza dubbio, ma c’erano anche serbi che sono rimasti con noi in città, i nostri vicini di casa, i nostri amici, io non ho mai fatto nessuna distinzione, nemmeno a scuola, non mi interessava da quale etnia provenisse una persona, era importante che fosse buona, onesta».
E’ stato un conflitto politico, che i civili hanno dovuto subire?
«Questo è stato, non si è trattato assolutamente di una guerra civile, come di solito si diceva, questa è stata la guerra contro i civili, noi, tutta la popolazione, non abbiamo sparato mai gli uni contro gli altri, sparavano solo militari e paramilitari, questi erano peggio dei militari che hanno una certa morale, una dottrina, sono stati addestrati, mentre i paramilitari sono mercenari, di loro non ti puoi fidare».
La Serbia voleva attuare una pulizia etnica, cacciando da Sarajevo e dalla Bosnia croati e musulmani.
«I Serbi hanno attuato la prima pulizia etnica, invisibile, proprio nell’esercito, mandando via tutti gli ufficiali o sottoufficiali che non erano serbi o montenegrini, cioè non ortodossi. Li mandavano in pensione, in congedo, rendevano loro la vita difficile, se si trattava di alti gradi, di generali, li mandavano a fare gli addetti militari il più lontano possibile».
Anche Nadira Sehovic, bosniaca di Sarajevo, giornalista e traduttrice, corrispondente Ansa per la zona dei Balcani, ha vissuto tutto il tempo dell’assedio in città, quando è scoppiata la guerra era tornata da un paio d’anni, dopo avere vissuto a lungo a Milano, dove ha fatto il liceo, e a Belgrado dove si è laureata. Nadira abita ancora nella casa in collina da dove si sparava di continuo, ma si sparava dappertutto, ricorda, non è che ci fossero posti dove la guerra non arrivava, la gente veniva colpita e moriva anche se stava in cantina, nei rifugi. «Sarei musulmana, – dice -, ma non lo sono, cioè non mi sento tale, solamente bosniaca».

 

C’erano mai stati conflitti etnico-religiosi in Bosnia prima della guerra?

 

«No, le “diversità etniche” sono state usate, c’erano un po’ a livello religioso, ma non erano nulla di importante, sono state strumentalizzate, esasperate».

Tra la gente c’era la consapevolezza di quel che sarebbe accaduto? Vi erano tensioni?

 

«Hanno cominciato i serbi, tutti i parlamentari serbi, proclamando nel Parlamento di Sarajevo il nove gennaio del ’92 la Repubblica Serba di Bosnia. Tutti noi bosniaci, cittadini di Sarajevo, si rideva, ci dicevamo che non era possibile che un simile tragico disegno divenisse realtà, sapevamo che non sarebbe stato possibile dividere senza un enorme spargimento di sangue».

 

A volere la guerra furono soprattutto le Forze Armate Serbe?

«Sì, e anche la leadership serba, Slobodan Miloševic, la propaganda ultranazionalista era tale che la gente non capiva i serbi venivano presentati come vittime che dovessero difendersi».

 

L’Onu ha perso credibilità a Srebrenica, non ha strappato alla morte nessuno dei musulmani in fuga dalla furia serba.

 

«Non ha salvato nessuno da nessun’altra parte, l’errore fondamentale che ha commesso è stato quello di sottolineare la propria imparzialità nei confronti delle parti belligeranti, ma nel momento in cui non ci si schiera con la vittima, non si è imparziali».

 

Oggi in Bosnia c’è una pace duratura, fondata su validi presupposti?

«C’è questa camicia di forza dell’accordo di Dayton che è tremenda e che pesa su tutti, si continua a dire che l’accordo ha fermato la guerra, ed è vero, era la cosa più importante, però ha legittimato le divisioni fatte con la forza, con la violenza, questa divisione in due entità, Repubblica Srpska e Federazione della Bosnia Erzegovina, non c’è mai stata, non è naturale. Tutti i mediatori internazionali hanno accettato la divisione etnica, non hanno preso le difese della multietnicità, permettendole di sopravvivere. Oggi i conflitti politici ci sono e sono profondi, non so come si fa ad eliminarli, sono la continuazione della guerra. La Repubblica Srpska ha una dirigenza estremamente nazionalista che parla di secessione, guardando a Belgrado, ma nessun serbo in Bosnia potrebbe accettarla. La Bosnia ha bisogno di stabilità politica, questa non ci sarà finché sarà in vigore l’accordo di Dayton che sancisce la divisione in due entità, solo l’entrata in Europa potrebbe rendere più vulnerabili le due entità, a vantaggio di uno stato unitario e multietnico».

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Paola Milli

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