Arriva trafelato e stanco, Bruno Contrada (nella foto), ad accoglierlo un pubblico di amici e simpatizzanti che lo hanno sempre creduto innocente, come lui proclama di essere da quel lontano dicembre di vent’anni fa, quando prese avvio, dopo una perquisizione nell’appartamento dove viveva con la famiglia, la sua vicenda giudiziaria. Una vicenda che ha avuto la parola fine l’undici ottobre scorso, quando anche gli arresti domiciliari sono cessati per l’ex dirigente superiore del Sisde che nel ’73, quando era ancora nella polizia di stato, diresse la Squadra mobile di Palermo.
Classe 1931, napoletano, nella sentenza definitiva di condanna che lo riguarda, emessa nel maggio del 2007 dalla Corte di Cassazione, si fa esplicito riferimento alla sua persona come colui che avvisò nell’81 il capo di Cosa Nostra Totò Riina, latitante da quaranta anni, che era stato individuato il luogo in cui si nascondeva, la cattura di Riina avvenne poi solo nel ’93, quando già costui aveva predisposto e organizzato le stragi in cui trovarono la morte i giudici Falcone e Borsellino.
Davanti ad una platea che lo ha salutato con dieci minuti di applausi, viene da chiedersi se davvero questo tributo di solidarietà e stima incrollabile ad un uomo delle istituzioni condannato dalla magistratura in diversi gradi di giudizio, per concorso esterno in associazione mafiosa, sulla base di pro ve e non illazioni, non nasca da una mancata informazione, da una superficialità di giudizio che vuole solo “tifare”, a cui non interessa la verità, che pesa quanto una colpa, un reato commesso. Lui molto enfaticamente ha affermato di credere ancora nelle istituzioni dello stato, di averne fiducia, “ciò non toglie che siano compresi anche uomini che di queste istituzioni hanno fatto parte e che facendo del male a me, hanno fatto del male alle istituzioni”.
E’ un discorso di pura dietrologia, assurdo e pericoloso, quello che giudica perdente in questa battaglia non solo Bruno Contrada, la sua modesta persona, ma anche lo stato, travolto perché Contrada era lo stato, dovrebbe essere, invece, sottolineato che ben altro è stato il ruolo svolto dai servitori dello stato irriducibili alla mafia, perché esistono, e sono esistiti in passato, poliziotti, carabinieri, uomini delle forze dell’ordine che fanno, che continuano a svolgere il loro dovere fino in fondo e null’altro, se Contrada appartenga a questa razza di inquirenti e persecutori del crimine organizzato nessuno dovrebbe più domandarselo, perché le motivazioni delle sentenze sono pubbliche, non ci si può nascondere nelle assurde spiegazioni della magistratura politicamente schierata, né affermare che ciò che sta avvenendo è “la trasformazione della lotta contro la mafia in una sorta di delega all’agenzia dei pentiti incorporated”.
Questa continua delegittimazione del lavoro e dell’impegno dei magistrati per fronteggiare e sconfiggere la mafia è ciò su cui essa sa di poter contare, quel che la rafforza e le consente di crescere e svilupparsi, in una logica perversa e gravemente colpevole che diffonde atteggiamenti culturali ploriferanti nell’incuria e nell’ignoranza, laddove alimentano una forma antica, ma sempre rinnovantesi, di fiancheggiamento, non sappiamo quanto involontario, quanto inconsapevole, del “pensare” e dell’ ”agire” mafioso. Gaspare Mutolo, Tommaso Buscetta, Giuseppe Marchese sono alcuni dei collaboratori di giustizia le cui testimonianze hanno consentito di fare luce sul ruolo vero svolto da Bruno Contrada nella lotta alla mafia, in realtà Giovanni Falcone non si fidava più di lui, da tempo aveva confidato ai colleghi con cui era più in amicizia di nutrire forti sospetti sul dirigente del Sisde.
Non troppo diversa doveva essere al riguardo la posizione di Paolo Borsellino che non gli fu mai amico, né mai lo frequentò, diversamente da quel che Contrada stesso andava millantando al suo legale di fiducia Lipera. I familiari del giudice fatto saltare in aria con tutta la sua scorta a Palermo, in via d’Amelio il diciannove luglio del ’92, sua moglie Agnese, i figli Fiammetta, Manfredi e Lucia, i fratelli Rita e Salvatore sono concordi nel negare che il loro congiunto intrattenesse rapporti di amicizia e collaborazione con Bruno Contrada, dichiarando essi di conoscere perfettamente chi fossero i collaboratori del magistrato Ancora più esplicita la requisitoria del pubblico ministero Antonio Ingroia contro il dirigente del Sisde: Contrada era a totale disposizione di Cosa Nostra, affermò, chiedendo la condanna a dodici anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa. Ricordiamo alcuni passaggi fondamentali della vicenda giudiziaria di questo ex poliziotto divenuto alto dirigente dei servizi: il 24 settembre dello scorso anno la Corte d’Appello di Caltanissetta ha ammesso la revisione del processo che vedeva condannato Contrada a dieci anni di carcere, ma di rimando la Corte d’Assise d’Appello di Caltanissetta due mesi dopo dichiarò inammissibile tale richiesta, giudizio confermato nel giugno scorso dalla Corte di Cassazione. Contrada era agli arresti domiciliari da quattro anni per motivi di salute, oggi si dice convinto di voler lottare fino all’ultimo respiro affinché emerga la verità, che lui forse non vedrà, ma i suoi figli e i suoi nipoti spera che possano conoscerla e “solo allora forse qualcuno potrebbe pentirsi del male che ha ingiustamente riversato su di me e sulle istituzioni, se solo qualcuno si ravvedesse”.
Il libro a cui Contrada ha affidato la sua memoria («La mia prigione»), scritto insieme alla giornalista Letizia Leviti, non vuole essere, ha ricordato quest’ultima, un manifesto di innocenza o colpevolezza, vengono elencati i fatti e solo dall’elenco dei fatti si intravede la figura finale, ma rimane una storia complessa, in cui potrà mancare qualche pezzo, magari proprio quello che potrebbe spiegare l’intera vicenda. Noi diciamo che non manca nulla, una “giustizia giusta” si è già pronunciata, la storia ne trarrà le dovute conseguenze.