L’Italia civile non accetta l’anomalia di una norma illiberale, contraria ai princìpi democratici, una legge di cui vergognarsi, anticostituzionale e in opposizione all’articolo 10 della Carta dei diritti umani della Corte europea di Strasburgo. E’ una legge del ’63, ha quasi cinquant’anni, una lontananza che segna cambiamenti epocali avvenuti dalla sua emanazione, a cui non si può reagire in altro modo se non auspicando la cancellazione della norma che prevede il carcere. In merito anche Paola Severino (nelle foto), ministro della Giustizia, ha espresso giudizi critici, durante un pubblico incontro alla Federazione Nazionale della Stampa. La sua attività di avvocato iniziò proprio, ha ricordato, nello studio di Adolfo Gatti, il grande penalista che è stato per tradizione difensore di testate giornalistiche, e fu lì che iniziò ad occuparsi di questa delicatissima materia, un impegno, quello a fianco di giornalisti e di giornali, giunto sino alla vigilia della nomina a ministro. Il caso del direttore del “Giornale” Sallusti, condannato in via definitiva dalla Cassazione a quattordici mesi di carcere, imputato per diffamazione per avere pubblicato nel 2007 su “Libero”, di cui era all’epoca direttore responsabile, un articolo scritto da altri, firmato con uno pseudonimo, è l’evento scatenante dei dibattiti di questi giorni, ma il tema da anni è a conoscenza di tutti, su di esso è in corso da tempo un confronto aperto.
«Io stessa, – ha ricordato il ministro -, ho partecipato a tanti pubblici incontri sulla responsabilità del giornalista, formandomi quel convincimento che oggi viene esplicitato, ma che già da anni era nella nostra cultura, nella nostra mentalità, un po’ appagata, forse, farisaicamente dall’idea che comunque le sentenze non vedessero mai una condanna al carcere, avendo sempre ben presente che il tema di questo tipo di pena fosse assolutamente inadeguato per quel tipo di reato».
Il tempo è maturo per intervenire su situazioni alle quali abbiamo tutti pensato negli anni e per le quali le proposte sono a noi tutti note, da noi condivise, per questo è stato possibile, secondo la Severino, con tanta prontezza apprestare dei disegni di legge che coprono l’intero arco costituzionale; è molto significativo il fatto che i disegni di legge non provengano da una sola parte politica, ciascuna parte ha ritenuto, infatti, di dover dare il proprio contributo ad un dibattito parlamentare che dovrà essere pieno e importante. La soluzione della causa di non punibilità è quella su cui da tempo si sta meditando, rispetto alla quale vi saranno certo delle necessità di approfondimento tra “tecnici,” ma è quasi naturale richiamare la figura di Walter Tobagi, un giornalista ideale, capace di curare la verità del fatto, così come di curare l’enunciazione della notizia. Però il richiamo agli aspetti disciplinari non va trascurato perché sono una componente importante delle possibili reazioni rispetto alla notizia falsa o al giudizio non correttamente critico. La Severino tiene, poi, a sottolineare l’importanza del richiamo, suggerito dal presidente Fieg Giulio Anselmi, al tema della legalità e dell’informazione, perché, come il guardasigilli ha enunciato, «un’informazione che si svolge nella legalità è il sforvero esercizio del diritto-dovere del giornalista, è la punta di diamante di un giornalismo che vuole essere informatore». Guardando all’Europa va detto che quasi ovunque è stata mantenuta la responsabilità penale, in molti casi sono rimaste le pene alternative, carcere e detenzione e pena pecuniaria nei paesi tradizionali, nei paesi entrati da poco in Europa la tendenza è, invece, quella di prevedere soltanto la pena pecuniaria, dieci paesi su quarantasette hanno depenalizzato totalmente la materia. Del resto le indicazioni provenienti da Strasburgo rivelano la tendenza che esprime contrarietà al carcere e che contesta l’eventuale esistenza di pene limitative rispetto a giudizi critici, ma occorre aggiungere che la giurisprudenza europea si è occupata del versante “giudizi critici”, non del versante “falsità delle notizie” e noi dobbiamo tenere distinti i due aspetti anche sotto il profilo dei rimedi, ha sottolineato la Severino, perché una cosa è rimediare con la rettifica alla notizia falsa, altra, più difficile, cosa è rimediare ad un giudizio critico lesivo dell’educazione, nei parametri della diffamazione.
E’ proprio guardando al tessuto europeo che si evince quanto l’inquadramento della forma procedurale nel processo penale risponda ad una tradizione ancora avvertita come più garantista, rispetto a quella di un iter civile che è abituato a considerare l’aspetto risarcitorio, non quello di ricostruzione del fatto, che normalmente all’interno del processo penale avviene in maniera molto corretta, mediante un piano fondato sul contraddittorio. La maggior parte delle proposte avanzate si innestano all’interno del giudizio penale come alternativa al giudizio civile risarcitorio, ma ciò, esplicita il ministro, non vuol dire che la sanzione debba essere quella del carcere, noi abbiamo un ampio strumentario di sanzioni penali non detentive, che possono essere applicate o rispolverate, a seconda dei casi, per questa vicenda.
Ella ricorda di non aver mai fatto mistero a proposito del carcere che considera l’estrema “ratio”, l’ultima risorsa, la sanzione a cui si deve ricorrere quando altre sanzioni non funzionano, ma non è certo questo il caso nel quale si deve ricorrere alla sanzione detentiva che non sarebbe né riparatoria, né risarcitoria, né rieducativa, non avrebbe nessun collegamento con la tipologia del fatto contestato e dunque occorre pensare ad una sanzione di tipo diverso, valutando e verificando le tante proposte e alternative che è possibile creare rispetto al tema della detenzione come soluzione per la diffamazione. La complessità della vicenda è data dall’esistenza di due valori costituzionalmente protetti che devono essere bilanciati tra di loro: da una parte la libertà di manifestazione del pensiero, valore primario; dall’altra il diritto del cittadino alla tutela della propria reputazione. Individuare quando un valore viene leso dal cattivo esercizio dell’altro rappresenta un compito difficile, svolto, però, correttamente dalla nostra giurisprudenza penale: le famose sentenze sul decalogo, rammenta la Severino, ci hanno consentito di chiarire quali sono i limiti della libera, giusta e corretta manifestazione del pensiero e dove, andando al di là, si cade, invece, in un’illecita lesione della reputazione.
Nessuno di noi, ha ricordato, vorrebbe vivere in un paese nel quale non si sia liberi di manifestare il proprio pensiero attraverso la stampa o altri mezzi di diffusione, come nessuno di noi vorrebbe vivere in un paese in cui ciascuno può liberamente e lecitamente violare la reputazione altrui, i due beni sono forti, importanti ed è la convivenza tra essi che deve essere assicurata dal legislatore, chi ha esperienza di diffamazione sa perfettamente quanto faccia male al giornalista la condanna, percepita come una diminuzione della sua professionalità, e quanto faccia male al diffamato la lesione della sua reputazione. Se la vittima considera che sia prevalente il diritto al ripristino della propria reputazione, credo che noi dobbiamo dare un ruolo centrale al tema della rettifica, al ripristino della reputazione con la pubblicazione della notizia uguale e contraria nel caso di falso, mentre per le ipotesi di giudizi insultanti costruire il contenuto della rettifica è un po’ più difficile. In sintesi, ha ribadito l’avvocato Severino, ministro del governo Monti, il grande sforzo che si sta facendo non è quello di costruire una norma che simbolicamente risolva solo il problema del carcere, ma quello di costruire una buona norma che riesca velocemente a coniugare legalità e informazione. Da aggiungere che molto più della pena pecuniaria e molto più di tutte le altre sanzioni può funzionare l’assetto disciplinare, alludendo all’ordine e alla buona regola che chi gestisce la vita di un ordine professionale non possa essere lo stesso che ne gestisce la disciplina e la parte che gestisce la disciplina deve avere una sua terzietà d’origine, così il sistema disciplinare può funzionare. E’ un diritto-dovere del giornalista quello di informare nella legalità, lo diceva Vassalli, riferisce, uno dei padri della tutela della libertà e della libertà di informazione, egli ha scritto tanto su questa materia; fu vittima, durante il fascismo, della lotta contro la libera manifestazione delle opinioni e ha coniato questa categoria del diritto-dovere, questa matrice pubblicistica nobile dell’attività del giornalista. Lavorando tutti insieme, ella ritiene che si possa fare veramente un lavoro importante per accentuare i profili di legalità dell’informazione, per rafforzare la libertà di informazione, senza ledere la dignità dei cittadini e questo deve valere anche per quei nuovi mezzi di informazione la cui diffusione è tale da rendere la tutela della reputazione ancora più delicata. L’invito è di fare una legge moderna, al passo con i tempi, che tenga conto anche delle nuove realtà mediatiche che esistono. Il governo, per parte sua, promette, impiegherà tutte le proprie energie per dare un contributo ai disegni che già sono pendenti in Parlamento.