Giorgio Napolitano di recente ha più volte lanciato l’allarme carceri, dichiarandone l’insostenibilità per l’inarrestabile sovraffollamento che richiede soluzioni ed iniziative coraggiose idonee ad uscire dall’emergenza.
Non da meno la Guardasigilli Paola Severino si è dimostrata molto sensibile al tema, rivelando, nella adozione del decreto svuota-carceri, la ferma volontà di intervenire in tal senso, ponendo una soluzione gravida di conseguenze che proprio sul numero dei detenuti va ad agire. Non da oggi si vocifera su “misure alternative al carcere;” il Presidente della Repubblica spera di poter contare su un Governo e un Parlamento che non lasceranno inascoltato il suo appello, portando il numero dei detenuti ad una consistenza molto più bassa dell’attuale.
All’interno della III Casa Circondariale di Rebibbia, a Roma, è nata una rivista, un giornalino che tale non è, data l’importanza che riveste per le conseguenze di cui è gravido un simile evento, che certo non è nuovo nei luoghi di reclusione, ma ogni volta l’incanto e l’ardire di vedere riprodotto il proprio pensiero su carta, riconoscere le proprie frasi nell’impaginazione grafica scelta per parlare all’alterità, dentro e fuori le mura del carcere, produce effetti di straniamento e di gioia in eguale misura negli “autori” inconsapevoli che hanno lavorato al progetto.
E’ questo un istituto piccolo, a custodia attenuata, accoglie quaranta detenuti, ma potrebbe contenerne anche un centinaio, senza affollamento, tutti tossicodipendenti in fase di trattamento avanzato, e con un residuo di pena non superiore a sei anni, proiettati in un reinserimento che è assai più di una vaga speranza perché qui si possono fare cose che forse altrove è più difficile fare, dove la promozione del recupero passa anche attraverso laboratori culturali e percorsi riabilitativi.
Fuori, in cortile, le piante potate e disegnate, i tombini colorati, lasciano intendere che si respira un’altra aria rispetto al regime duro dell’Alta Sicurezza e a quello ancor più punitivo del 41bis, sono, infatti, attività compiute dai detenuti su base volontaria, senza essere pagati, queste espressioni di cura verso l’ambiente circostante, perché un albero non cessa di essere un albero se cresce dentro le mura di una prigione.
Angiolo Marroni, Garante dei Diritti dei Detenuti del Lazio, il cui ufficio ha patrocinato e contribuito alla realizzazione della rivista, parla di un’operazione molto coraggiosa, definendo questa iniziativa propriamente culturale, sottolineando, altresì, l’erroneità quando ci si chiede come si fa ad uscire dalla cultura del crimine e si replica convinti che la migliore risposta sia il lavoro. Il lavoro è importante per tante cose, ma la cosa più importante, sostiene, ai fini di uscire dalla cultura del crimine, è la cultura, è lo studio, è la ricerca, lo studio è fondamentale a tutti i livelli, è fondamentale l’arte, è fondamentale avere la cultura della legalità che viene dall’arte, che viene dallo studio, altrimenti è probabile che si registrino dei fallimenti.
Sulla durata della rivista va detto subito che dipenderà non solo da chi la produce, ma anche da come verrà aiutata, il denaro pubblico speso anche a questi scopi è bene speso, non è spreco, sulla cultura non si deve risparmiare! E’ il messaggio di Angiolo Marroni, che ha un passato di amministratore pubblico e idee molto chiare su quel che dovrebbe diventare “Beccati a scrivere”, intanto passare da semestrale a trimestrale, pur se una periodicità così ampia obbliga chi la scrive a metterci dentro riflessioni e non notizie, le notizie invecchiano con una velocità incredibile, un quotidiano dopo due ore è già vecchio, una rivista semestrale o trimestrale deve ospitare riflessioni che abbiano una durata nel tempo e costringano chi scrive a riflettere.
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Angiolo Marroni (Garante dei Diritti dei Detenuti del Lazio)
«Sono contento che la popolazione, la società esterna entri in carcere, – ha concluso così il suo intervento -, però, io ho sempre fatto in modo che una visita in carcere non fosse come se si andasse al giardino zoologico, non si viene a vedere gli animali in gabbia, si viene a conoscere una realtà, si viene a trasmettere sentimenti, conoscenze, ma si viene anche ad imparare sentimenti e conoscenze, questo è uno scambio, le mura del carcere non chiudono, possono anche essere aperte e produrre uno scambio».
La rivista, si levano altri commenti, è frutto di un lungo lavoro, non è uno “sfogatoio” come spesso sono le riviste di carcere, dove chi viene a scrivere butta soltanto il suo malessere, è, invece, una rivista nella quale il proprio malessere è diventato un’occasione di riflessione comune, si è trasformato in una riflessione utile per gli altri.
Claudia Farallo direttrice di “Beccati a scrivere”, giornalista specializzata in media education, racconta che un piccolo gruppo di ragazzi detenuti più di un anno fa ha manifestato l’intenzione di fare un giornale, dimostrando di poterlo fare perché si sono arrangiati con quello che avevano e con l’aiuto di educatori, insegnanti, hanno dato vita ad un prototipo, ad un numero zero di sei pagine. Dice di essersi “introdotta in punta di piedi in questa redazione molto coesa e molto gelosa della paternità dell’opera, come è giusto che sia, lavoriamo soprattutto sui testi, ammette, il testo è utile a conoscersi, a capire meglio chi siamo». «Il titolo dato alla rivista, – riferisce uno dei redattori, Gianluca Carboni, detenuto- giornalista -, è nato un po’ per caso, dapprima avevamo scelto un altro titolo, ma era stato già registrato per un periodico nato in un carcere, così siamo stati costretti a cambiarlo, questo ci è piaciuto e ha funzionato. All’inizio, – ricorda -, non avevamo nemmeno una stanza dove riunirci, oggi abbiamo una redazione nostra, computer, stampante, facciamo quello che si fa in una redazione, si commenta, si discute, ci si confronta fra di noi, penso che sia la miglior crescita».
Gemma Marotta, docente di Criminologia e Sociologia della Devianza alla Sapienza di Roma, ritiene che lo scrivere, soprattutto con carta e penna, aiuti a riflettere, a pensare, a conoscere se stessi, qualsiasi cosa si scriva, anche scrivendo un lavoro scientifico. Altra docente altro pensiero, stessa università: Valeria Giordano, insegnante di Sociologia della Metropoli, si dice convinta che la scrittura, oltre ad essere un fondamentale strumento di soddisfazione e realizzazione di se stessi, presenta anche un aspetto un po’ perverso, nel senso che a volte scrivere diventa una forma di autoreclusione, cioè da un lato la scrittura è il segno della massima libertà, ma dall’altro molti autori, soprattutto quelli che hanno descritto la modernità, quindi verso la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, sottolineano come si possa rimanere chiusi nella scrittura che in fondo è una forma di autoreclusione, appunto.
«Il nostro sforzo deve essere quello, luoghi comuni, dagli stereotipi che ci sono intorno al carcere e che non fanno altro che allontanarlo dal mondo, mentre la cosa fondamentale è farlo diventare trasparente, è metterlo a confronto continuamente con il mondo esterno per consentire a questo di entrare nell’istituzione chiusa, totale che è il carcere, il quale a sua volta dovrebbe aprirsi a quella che è l’esperienza del mondo esterno. Tutto questo forzando il pensiero, producendo anche un pensiero provocatorio».
Cristian Malagoli ha scritto per la rivista, il cui sommario reca nei titoli, tra gli altri, Eventi reclusi; Celle a quattro zampe; Cucina e salute; Poesie; un articolo breve, ma intensissimo in cui si mette molto in gioco, parlando di solitudine, di rabbia.
«Io racconto la mia storia -, dice -, la solitudine è brutta, non si aiuta una persona lasciandola sola, sentivo la guardia che urlava il nome di tutti i compagni che conoscevo, ma non il mio».
Cristian aveva una famiglia, aveva la ragazza fuori di qui, entrato in carcere sono spariti tutti ed è «un silenzio che dentro ti fa male, ti brucia, una prigione è un luogo sempre pieno di gente, ma ciò non vuol dire che non si è soli, al contrario, qui la solitudine è trasparente e dura come una roccia, una lama sottile che ti taglia letteralmente in due. Dovremmo ricordare tutti un po’ più spesso che qui non ci sono gli altri, ci siamo noi quando sbagliamo qui dentro ci sono i nostri figli, i nostri genitori, i nostri fratelli quando sbagliano, non c’è un mondo altro da noi».