Dopo una “vacatio” di sette, ottomesi, la Diocesi veneziana, che ha dato a Roma tre Papi, Pio X, Giovanni XXIII e Giovanni Paolo I, ha un nuovo Patriarca, Francesco Moraglia, succeduto al Cardinale Angelo Scola, dal giugno scorso arcivescovo di Milano. Genovese, cinquantanove anni il prossimo venticinque maggio, già vescovo di La Spezia, dottore in Teologia dogmatica, la sua è una famiglia di avvocati, lo era suo padre, lo sono le sue due sorelle e il fratello Paolo. Serio, studioso, sobrio e sportivo, così lo ha definito sua madre, ricordando un bambino, un ragazzo che amava lo sport, moto, calcio, sci, passioni condivise ancora oggi con i tanti che amano la Formula Uno, il ciclismo, eppure l’attitudine insostituibile è per lui quella di ascoltare le persone, comprenderne le ragioni manifeste e recondite.
«Ho saputo, – dice -, di essere il Patriarca di Venezia dalla stampa che ne ha dato notizia prima delle comunicazioni ufficiali, le mie prime impressioni molto parziali, frammentate, sono quelle di immagini vive che stanno sul territorio, mi è sembrato che fossero in attesa di qualcosa, poi ho capito che l’attesa era quella del Patriarca».
C’è un senso di crisi forte, profonda in tutta la società, gente che muore e che non ha avuto prospettive di vita, ma anche persone che si trovano oggi in difficoltà, dopo avere vissuto periodi di tranquillità, è il caso dei suicidi di cui sono stati vittime alcuni imprenditori veneti. Lei cosa sente di dover dire al riguardo?
«Viviamo in un mondo in cui la fede molte volte è ridotta e quindi è molto difficile dare conforto, il soggetto credente, la Chiesa e le sue varie articolazioni hanno il dovere di operare una sintesi che veda la fede come realtà soprannaturale che però non prescinde dal male. Ritengo che una proposta cristiana staccata dal dato, dalla carne, dalla vita concreta sia una proposta sbagliata perché la fede cristiana addirittura mi dice che Dio si è fatto uomo grazie alla storia, quindi la Chiesa e noi che ci nutriamo alla sua fonte dobbiamo tenere conto di questo “realismo cristiano”. Non possiamo ridurre la fede solamente ad un discorso sociale, ma, nello stesso tempo, dobbiamo stare molto attenti a non parlare della fede come di una realtà spiritualistica consolatoria, la grande sfida per riappropriarci dell’interesse della gente, secondo me, è impostare un cristianesimo attento a tutte le questioni di fuori, riflettete sulle domande del “Padre Nostro”, per me in esse c’è la verità del Cristianesimo perché questa preghiera mette insieme due estremi: “Signore, ricordati che ho fame e devo mangiare” e “Dacci oggi il nostro pane quotidiano”, poi dice la cosa più alta: “Sia fatta la volontà di Dio”; io penso che un Cristianesimo che tiene conto di queste realtà sia una proposta vera, non riducibile ad una questione di linguaggi perché il linguaggio porta dietro una realtà che va oltre la parola».
Lei ha conosciuto Albino Luciani che è stato Patriarca a Venezia e poi nel ’78 Papa per soli trentatré giorni? Ha un ricordo personale di lui?
«Non ho un ricordo personale di lui, ero un giovane prete, Albino Luciani è morto il 28 settembre del ’78, io sono stato ordinato prete nel giugno del ’77, per me era uno dei grandi Cardinali italiani, non ho mai pensato di essere un giorno il suo successore al Patriarcato di Venezia, però lego a lui questo, la scelta che ha fatto del suo nome, ha unito due Papi che avevano rappresentato momenti importanti della sua vita, uno che l’aveva fatto Vescovo, Giovanni XXIII e l’altro Paolo VI che l’aveva nominato Cardinale. In questa scelta a me è parso di vedere un uomo molto umile e nello stesso tempo una persona grata, che ha voluto esprimere un senso della riconoscenza personale verso i suoi grandi predecessori, credo che la gratitudine sia merce rara».
E’ stato scritto, in merito ai discorsi che ha tenuto nell’omelia a San Marco, la prima rivolta al popolo veneziano, e in quella diretta ai sacerdoti, che l’impatto è stato molto forte. Quali sensazioni ha provato dopo averli pronunciati?
«Un vescovo quando parla deve cercare di inserirsi in una situazione, parlo del mio caso, che ancora non conosce perfettamente e nel contempo deve andare come “showthe work”, credo che essere Vescovo oggi non sia una cosa facile, io sono conscio di dire la verità, di non chiedere cose personali e di andare incontro alla situazione che sto visitando, tutte le volte che faccio qualcosa nella Chiesa, cerco di pensarla di fronte agli ultimi. Ho cercato di dire quello che mi sembrava corrispondente ad un Cristianesimo reale, la mia nomina a Patriarca di Venezia testimonia che gli uomini passano e la Chiesa rimane».
Lei ha speso parole per la questione drammatica del lavoro, del precariato, dei poveri, degli ultimi. Possiamo darne lettura come di un esempio diretto di quel Cristianesimo molto ancorato alle cose, alla società, di cui diceva prima?
«A volte ci troviamo di fronte ad una realtà mistificata, penso alle tematiche educative e so anche quanto siano devastanti i consigli per la pubblicità, soprattutto per i nostri adolescenti, perché la realtà è fatta di salute, di bellezza, di svaghi, di tempo libero, ma è fatta anche di bene comune, è fatta di famiglie che faticano, è fatta di sacrifici, di persone giovani malate. Il mio intento è quello di “andare alla realtà”, entrando in Diocesi questo mi sono prefisso, ho scelto, non volendo escludere altri momenti di realtà, i giovani, persone innocenti, persone in difficoltà, ho scelto il mondo del lavoro e i malati perché anche questa realtà non è l’unica realtà, ma è una realtà che non ci piace e quindi non la consideriamo come dovremmo. Gli adolescenti di oggi, ai quali certe volte banalizziamo la vita, domani saranno loro a gestirla e non so come riusciranno, a furia di stare in un mondo virtuale».
Il Veneto è una delle Regioni che hanno scelto di tenere aperti negozi e centri commerciali di domenica e in tutti i giorni festivi, persino a Pasqua. Una lettera dei sindacati la invita a prendere posizione in merito, chiedendo il suo intervento per contrastare queste logiche. Cosa ne pensa?
«I centri commerciali, di derivazione anglofona, sono la nuova religione, luoghi di culto dove è possibile trovare la soddisfazione ai propri bisogni ventiquattro ore al giorno, ciò rappresenta una riduzione impressionante dell’uomo che ha invece bisogno di incontrare se stesso, se si continua a porre la nostra società di fronte all’interesse del “business”, dell’affare, ho l’impressione che non ne usciremo fuori. Il riposo non vuol dire solo “io non lavoro”, ma “io vivo altre opportunità”, questo è fondamentale per contrastare la deriva della mercificazione dell’uomo in atto da tempo e non ce ne accorgiamo perché siamo immersi nell’ideologia dell’illusionismo. Mi sembra, tuttavia, di cogliere una trasversalità di valori, di idealità comuni al mondo cattolico, credente, e ai sindacati che non appartengono certamente a questa idealità di pensiero, ciò potrebbe significare essere al fianco gli uni degli altri per un interesse generale che non è quello della finanza, dell’economia, delle multinazionali».
Lei ha anche detto che la politica non è sempre una cosa sporca. E’ un messaggio di speranza?
«La politica è un’attività umana e come tale può essere pulita o sporca, dire che è sporca è comodo, ma se la viviamo in questa logica, allora incoraggiamo la deriva del l’antipolitica, mentre è necessaria una politica che recuperi l’interesse generale, il bene comune, che metta la persona al centro, stiamo andando verso un’emergenza sociale, una conflittualità sociale».
Qual è il suo giudizio sul pagamento dell’Imu anche per la Chiesa?
«Sono stati fatti tanti discorsi, mi è sembrato che volessero colpire la Chiesa come soggetto sociale diffuso, io non mi sento di escludere che ci possano essere stati degli abusi dal punto di vista dell’Ici, però io dico evitiamo una mentalità borghese che non tiene conto della realtà sociale, di che tipo di servizio la Chiesa, come soggetto diffuso, socialmente fa».
Quale sarà l’apporto specifico del laicato nella sua Diocesi?
«Ci sono degli ambiti che noi preti dobbiamo avere il coraggio di dare in appannaggio ai laici, c’è una specificità di vocazione, una comunità vive bene se tutte le vocazioni trovano la valorizzazione».
Cosa pensa del fatto di cronaca recente che ha visto sacerdoti di due parrocchie multati con 1200 euro per il suono delle campane ritenuto troppo forte?
«Io non conosco il caso, posso anche pensare che una campana possa risultare inopportuna, certe volte, però, rimango un po’ perplesso e mi chiedo se solo il suono delle campane fa venire l’esaurimento nervoso, ci sono tanti altri usi impropri dei decibel che invece vengono tollerati, allora qui non capisco più tanto, rimane il fatto che ci può essere anche un disturbo, ma temo che, al di là delle situazioni da rimuovere perché sono improprie, ci sia l’altro tema, ridurre sempre di più il profilo urbanistico della fede, perché noi nella città ci viviamo, la città ci plasma e noi la plasmiamo, allora può dare fastidio un campanile, può dare fastidio la campana, la processione. Credo che una sana laicità richieda anche di consentire ad una persona di esprimere la sua fede, come io posso così sentire malvolentieri una moto che forse non ha la marmitta secondo i silenziatori dovuti. Certe volte bisognerebbe anche essere capaci di cogliere che, al di là di certe lamentele, c’è qualche cosa che non è la campana, ma è quello che indica la campana».