Marco Rossi Doria ha una storia che parla per lui, una biografia singolare e importante, ricca di movimenti, mutamenti, consapevolezze maturate nell’ambito dell’insegnamento nella scuola di base, svolto in Italia e altrove, oltreoceano, in Africa, in Francia. A Napoli ha inizio la sua vicenda biografica, nel ’54, figlio del grande studioso, economista agrario, antifascista, Manlio Rossi Doria, insegnante per passione, vocazione, amore per quella naturale magia che racchiude il rapporto docente/discente, una magia che, quando si innesta, può davvero schiudere le porte dell’universo, donare all’uno la chiave per decodificare dei codici muti che spiegano la realtà, e all’altro l’energia, la forza, l’entusiasmo per alimentare e sviluppare senza limiti la trasmissione del sapere. Da fine novembre Rossi Doria, che nel 2001 ha fatto parte della delegazione italiana all’Onu per l’applicazione della Convenzione sui diritti dell’infanzia, è uno dei due sottosegretari all’Istruzione del governo Monti.
Lei è stato “maestro di strada” nei quartieri spagnoli di Napoli, come nacque quell’esperienza?
«Ebbi un comando dal ministro Luigi Berlinguer per un progetto “Maestro di strada Singolar Tenzone,” era un prototipo di una sola persona comandata presso un’associazione di volontariato, in base a delle norme che consentono l’utilizzo di docenti. Avevo chiesto di essere utilizzato per poter vedere a monte e a valle della scuola, cosa succedeva ai ragazzi che hanno difficoltà a scuola e anche a quelli che non ci vanno più, ho fatto questo per tre anni da solo, stendendo una dettagliatissima relazione, una sorta di diario di bordo con il numero esatto dei ragazzi contattati, i livelli di alfabetizzazione raggiunti.
Un secondo livello del lavoro era un gruppo integrato che seguiva i ragazzi più difficili nel quartiere dove c’era la psicologa per il tribunale dei minori, la responsabile nel quartiere dei servizi sociali del Comune, gli insegnanti delle maggiori scuole di riferimento, io che facevo mediazione, il rappresentante della parrocchia, del centro sportivo e alcune associazioni del privato sociale che intrattenevano i bambini durante i pomeriggi, qualche volta è venuto anche il rappresentante della Squadra Mobile che ci segnalava dei pericoli dovuti a recrudescenza di guerre tra fazioni contrapposte, per il controllo del territorio di famiglie camorriste, perlopiù intorno alle problematiche
della droga; se stava per avvenire qualcosa, o se si temeva che avvenisse qualcosa, o se c’era una recrudescenza di guerra tra bande, tipicamente alcuni ragazzini non andavano a scuola. Noi avevamo una lista di centottanta famiglie gravemente multiproblematiche e che producevano i casi più difficili del quartiere, quindi seguivamo questi ragazzini uno ad uno, con una riunione ogni venti giorni, l’abbiamo fatto per quattro anni e su ognuno avevamo un progetto bambino, un progetto ragazzo, cercando, con sviluppo prossimale, di fare le cose possibili, intervenivamo in alcune emergenze, chiamavamo i genitori, facevamo intervenire dal carcere i padri, in un modo o nell’altro».
A quali anni risale questa esperienza?
«Risale agli anni dal ’94 al ’99, era il primo governo Bassolino nella città di Napoli, era una cosa integrata, lo era ancor più perché in quegli anni si è fatto un esperimento in alcune città italiane, tra cui Napoli, in alcuni quartieri, di “reddito minimo d’inserimento,” una misura civile che c’è in tutti i Paesi, una misura anti povertà, solitamente è una misura generalista per le famiglie povere. Nei quartieri di Napoli la sperimentazione si era fatta con due indicatori, noi davamo questo reddito minimo, era poco, duecentosessantamila lire a famiglia, sulla base di un bando dove si vedeva la povertà, con un elemento di controllo, perché poi c’era la falsa povertà, in positivo vedevamo due cose: il mantenimento della casa, nel senso che i servizi sociali andavano e vedevano se la casa veniva pulita, se i pasti erano regolari, se il bagno era minimamente civile, erano dei bassi, un’inner city molto disagiata, e la seconda è se i figli andavano regolarmente a scuola, con risultati accettabili e se i genitori andavano a parlare con i docenti regolarmente, alle riunioni.
Avevamo mandato di costituire per territorio “un’educativa territoriale” nella quale i quartieri spagnoli avevano costruito ciò che noi chiamammo all’epoca una “regia di quartiere”, centrata su di noi, quindi noi avevamo il controllo esatto di quello che facevano. Il ministro Berlinguer decise allora, sulla base della relazione conclusiva di questo lungo percorso, di dare mandato al Provveditore agli Studi di Napoli in carica all’epoca, di fare diciotto cloni di questa esperienza in tre quartieri di Napoli, quindi poi abbiamo fatto il progetto Chance, successivo alla mia sperimentazione».
Lei è stato maestro fino al 2006?
«Sì, nel 2005 mi sono presentato, inopinatamente direi, a sindaco di Napoli nella lista civica, perché non ero d’accordo con i modi della politica locale e poi successivamente sono tornato a scuola per pochissimo tempo, in seguito alla chiamata, da parte del vice ministro alla Pubblica Istruzione nel secondo governo Prodi, Mariangela Bastico, per stare nel suo ufficio tecnico, dove mi sono occupato sia delle indicazioni nazionali per il Curricolo della scuola di base, sia dell’elevamento dell’obbligo di istruzione a sedici anni, su quest’ultima questione si è avuto un dibattito durato decenni, credo che il primo a parlarne sia stato il ministro fascista Bottai, prima della Seconda Guerra Mondiale, un dibattito delle potenze europee tra le due guerre, vecchissimo».
Quali considerazioni erano all’origine di questo dibattito?
«Si era capito che il modello industriale taylorista aveva bisogno di quadri perché l’industria diventava sempre più sofisticata, perciò tutti dovevano avere un grado maggiore di istruzione, questo è avvenuto negli Stati Uniti, poi in Europa.
Noi eravamo un po’ in ritardo, siamo usciti dalla Seconda Guerra Mondiale con l’obbligo scolastico fino alla quinta elementare e un terzo dei ragazzini che non ci andavano, soprattutto le bambine disertavano la scuola. Poi abbiamo dovuto aspettare il ’62 per applicare la norma della Costituzione che diceva che ci dovevano essere otto anni di istruzione e quindi l’elevamento dell’obbligo dopo la terza media era dal ’62 che era atteso e dibattuto in Italia. Quando con il ministro Fioroni, nel 2006, la legge è passata, faceva seguito ad una discussione durata trentacinque anni».
Quali sono oggi le priorità della scuola in Italia?
«La prima cosa è riprendere una manutenzione ordinaria, abbiamo un problema di norme che si accavallano, dell’autonomia scolastica che è stata decisa quindici anni fa e che non ha tutte le risorse bene organizzate».
L’anagrafe dell’edilizia scolastica ha rivelato che la maggior parte delle scuole non sono a norma.
«Esatto, la seconda questione, lo stavo per dire, è che noi abbiamo scuole costruite in gran parte prima dell’80 e, come ha detto il ministro Profumo, paghiamo affitti in troppi casi, ed è scandaloso, inoltre, c’è una dispersione energetica terrificante nella maggior parte delle nostre scuole, con costi più alti del dovuto; le scuole non sono ecosostenibili e la sicurezza, sia quella secondaria, che quella prioritaria, relativa alla statica in alcuni edifici, non sempre è garantita. Se pensiamo che l’Italia è un Paese sismico! Naturalmente non ci sono risorse per modificare questo stato di cose».
Di certo l’indebolimento del Welfare State non gioca a favore di un superamento delle criticità.
«Sì, però, in questo caso, c’è un altro ragionamento che sta venendo avanti, che, in termini di teoria economica, si potrebbe chiamare “neo keynesiano,” un po’ quello che sta facendo Obama, per certi versi, il governo centrale, per uscire da una fase recessiva, aiuta le forze locali ad individuare le reti elettriche, le scuole, i ponti che vanno riattati, che comunque sono anche un fattore di occupazione e di lavoro, e crea un movimento antirecessivo. Il problema è che da noi non ci sono altrettanti ingenti capitali pubblici per fare questo, come è stato in altre fasi, e quindi bisognerà esplorare altre strade, è complicato».
Crede che il governo Monti riuscirà, almeno in parte, a restituire un po’ di dignità alla Ricerca?
«Io penso di sì, credo vi sia la consapevolezza che un grande Paese avanzato debba rilanciare la scuola e la ricerca, il problema è che paghiamo un enorme debito sul deficit pubblico, con degli interessi annuali elevatissimi e così perdiamo tante risorse, però, in questo governo c’è la consapevolezza che le voci che riguardano “ricerca e scuola” sono voci di investimento, non voci di spesa».
L’Unione Europea rappresenta più un vincolo o un’opportunità per l’Italia e per gli altri Stati membri?
«Penso che sia una grande opportunità per tutti, con i fondi europei noi, in questa situazione, stiamo dando un miliardo alle Regioni meridionali, soldi che vengono spesi per contrastare la dispersione scolastica, per riparare le scuole, per offrire computer in luoghi e situazioni dove impera il “digital divide”. Vedo ancora un salvagente nell’Europa, un miliardo, per essere concreti, di questi tempi non è poco!»
Lei ha parlato di innovare a partire dal Sud: in che modo, le chiedo?
«E’ stato il ministro Francesco Profumo a dire questo, io trovo che sia molto bello che abbia voluto esprimersi così, l’ha detto in Puglia, in Campania, lo ha ripetuto, alludendo alla possibilità che alcune realtà fortemente innovative prendano piede nelle scuole, nuove tecnologie intese non solo come tecnologia, ma come formazione dei docenti rispetto all’apprendimento, ed abbiano il primo cantiere nel Sud, cantiere pilota, non cantiere recupero, cantiere avanzato che guarda al resto del Paese. E’ una specie di inversione dal punto di vista anche simbolico, oltre che concreto».
Con il ministro Francesco Profumo è tornata la speranza, a detta di molti, ha parlato agli studenti, mostrando di volerli ascoltare.
«Il ministro, lo ha ripetuto anche nei giorni scorsi sul web, crede nella comunità scolastica, per cui il potenziamento dell’utilizzo tecnologico nelle scuole, non è mera tecnica, è strumento, invece, atto a promuovere una comunità educante più larga, più viva, con più mezzi interni di informazione e comunicazione reciproca. Io mi trovo molto d’accordo con lui. Ho scritto più volte, intorno ai temi della scuola, sulla Stampa di Torino, prima di ricoprire questo incarico e mi sento di affermare che “positive thinking” è doveroso oggi, noi dobbiamo insistere su questi elementi positivi, non piangerci addosso, l’Italia è piena di insegnanti che fanno il loro dovere con abnegazione ed entusiasmo, nonostante le poche risorse e i tanti disagi».