I riflettori che una settimana fa hanno illuminato il primo dibattito presidenziale tra Joe Biden e Donald Trump sono spenti. Quelli dell’opinione pubblica, invece, continuano a rivolgere un fascio di luce accecante sul candidato democratico. Ne mettono implacabilmente in mostra i lineamenti del viso attempato e dello sguardo a tratti assente, che abbinati alla voce roca portano a una conclusione apparentemente scontata: il presidente 81enne (82 a novembre) è too old to serve. Troppo in là con l’età per fare il presidente – figurarsi per un altro mandato.
Biden ha deciso di trascorrere il fine settimana a Camp David in compagnia della famiglia allargata – First Lady Jill, figli e nipoti compresi. Chi conosce da vicino il presidente sostiene che avesse bisogno di sentire il sostegno delle persone a lui più care, che avevano già giocato un ruolo cruciale nella sua decisione di sciogliere le riserve nel 2020 per arginare l’uragano Trump-bis. Anche questa volta lo hanno implorato di rimanere in corsa nonostante appelli sempre più insistenti affinché esca di scena in tempo prima del voto di inizio novembre. Tra i maggiori sostenitori del padre c’è il secondogenito Hunter (recentemente condannato in Delaware), convinto che il vero Biden non sia quello – decisamente sottotono – visto al dibattito.
Facendo cerchio attorno al capostipite Joe, la famiglia se l’è piuttosto presa con il suo staff elettorale – su cui sono state fatte ricadere le responsabilità della débâcle contro l’assai più energico Trump. Anche John Morgan, importante donatore democratico della Florida, ha indirizzato la propria frustrazione verso la strategia pre-dibattito orchestrata dai consulenti Anita Dunn e Bob Bauer. “Dovevano farlo riposare, era esausto,” si è lamentato Morgan, secondo cui Biden sarebbe apparso debole in quanto sovraccaricato di statistiche e fisicamente stremato da fin troppe simulazioni di dibattito, senza contare il tour de force di missioni all’estero dell’ultimo mese.
Per il momento non pare comunque in vista alcun repulisti: Biden è d’altronde noto per la lealtà verso i suoi collaboratori, e difficilmente vorrà fare eccezioni stavolta.
Se l’81enne può contare sul sostegno incondizionato dei propri cari, lo stesso non si può dire del mondo esterno. A cominciare dai suoi alleati. Alcuni parlamentari democratici avrebbero già iniziato a prendere le distanze dal presidente, specialmente in quei distretti elettorali dove il margine tra GOP e dem è più risicato – e dove qualsiasi coinvolgimento del presidente o della First Lady potrebbe ora rivelarsi controproducenti.
Temendo l’effetto domino post-dibattito, Missy Cotter Smasal, candidata in Virginia, si è ritirata da un evento elettorale programmato per lo scorso venerdì. Pat Ryan, deputato di New York, ha invece preferito evitare le domande dei giornalisti. Strategia analoga a quella di Mary Peltola, dell’Alaska, che ai reporter ha dichiarato di essere concentrata “solo sulla propria campagna”.
A chiedere un passo indietro di Biden è stata anche la redazione del New York Times, in un drammatico editoriale pubblicato poche ore dopo la chiusura del dibattito che spiega come un candidato “più capace” rappresenti la “migliore occasione per proteggere l’anima della nazione dalla deformazione maligna di Trump”.
Jen O’Malley Dillon, responsabile della campagna di rielezione di Biden, ha invece cercato di buttare acqua sul fuoco. In un messaggio ai sostenitori dem ha sottolineato come i sondaggi nei principali swing states non abbiano subito variazioni significative dopo il dibattito (il che sottintende tuttavia che Trump rimanga in vantaggio in quasi tutti). Domenica la campagna di Biden ha inoltre affermato di aver raccolto ben 33 milioni di dollari in appena tre giorni – in gran parte provenienti da piccoli donatori al loro primo contributo in questo ciclo elettorale.
Lo staff del presidente è corso ai ripari tentando di ricostruire un’aura di vigorosità attorno al più anziano capo di Stato USA di sempre programmandone un’apparizione pubblica venerdì nella Carolina del Nord, dove è sembrato quasi un’altra persona rispetto a poche ore prima. “Magari non cammino o parlo bene come un tempo. Magari non dibatto bene come un tempo. Ma una cosa la so fare – ed è dire la verità”, ha detto Biden nel suo intervento.
La sensazione, tuttavia, è che il danno sia ormai fatto. E il Partito Democratico ha per la prima volta pubblicamente ammesso di aver iniziato a pensare a candidature alternative.
Tanti i nomi papabili: in primis la vicepresidente Kamala Harris – che potrebbe far breccia nell’elettorato nero ma soprattutto di quello femminile preoccupato dalla campagna anti-aborto dei repubblicani più ortodossi. Pubblicamente il suo team ha finora respinto qualsiasi discussione su un ticket democratico senza Biden, ma la maggior parte degli strateghi progressisti sostiene che sia lei la scelta più sensata, dato il legame istituzionale con il presidente (e con il suo elettorato).
Che la sessantenne ex procuratrice distrettuale della California possa far meglio del suo compagno di ticket è però un’ipotesi tutt’altro che corroborata. Non depone certo a favore uno dei pochi sondaggi disponibili, condotto dal New York Times e dal Siena College lo scorso febbraio: in un’ipotetica corsa Harris rimarrebbe distaccata da Trump di ben sei punti percentuali (42%-48%) – un paio in più rispetto alla distanza tra Biden e il repubblicano (44%-48%).
Nella rosa dei nomi ci sono anche il governatore della California Gavin Newsom – considerato come uno dei possibili candidati democratici alle elezioni del 2028 – e Gretchen Whitmer – governatrice del Michigan (anti-trumpiana di ferro) e altro possibile colpo nella canna dei progressisti tra quattro anni.
Nonostante la fama di astro nascente dem, anche il 56enne Newsom potrebbe uscire con le ossa rotte da un eventuale scontro con Trump: secondo un sondaggio condotto lo scorso febbraio dall’Emerson College, l’ex presidente batterebbe l’amministratore californiano di una decina di punti. Secondo lo stesso sondaggio, farebbe persino peggio Whitmer, fermandosi a un magro 33% (-22 rispetto al guru MAGA).
Tanto il presidente quanto i strateghi dem si trovano perciò ad operare in un campo minato dove non esistono scelte facili. E con la consapevolezza che qualsiasi decisione finale spetta solo e soltanto a Biden, che per il momento – confortato dagli affetti familiari – sembra non voler mollare la presa e rischiare il tutto per tutto. Così da convincere il partito – e il Paese – di essere il leader di cui hanno bisogno. Di nuovo.