Entrata nel settimo mese di governo, la presidente del consiglio Giorgia Meloni ha deciso di affrontare quello che si rivelerà lo scoglio più duro: mettere mano alla Costituzione e affermare una nuova idea di stato, quella della destra di cui lei è leader.
Ha un’idea di che cosa fare? Se ce l’ha, non l’ha ancora resa nota nei dettagli. Siamo ancora alle linee generali. In campagna elettorale sbandierava l’idea dell’elezione diretta del presidente della Repubblica, adesso affianca l’ipotesi del premierato, ovvero l’elezione diretta del capo del governo.
Il primo passo di una strada che sarà accidentata per la compagine di governo come per le opposizioni è previsto per martedì 9 maggio: Giorgia Meloni ha convocato in una sala parlamentare delegazioni di tutti i partiti in Parlamento per annunciare la sua intenzione di cambiare la Costituzione. Se stiamo al modo in cui ha governato in questi primi sei mesi, è assai probabile che si presenterà con questo tipo di proposta: io sono pronta a cambiare la carta fondativa dell’Italia con tutti quelli che ci stanno e trovando insieme lo strumento per farlo, che potrebbe essere una commissione bicamerale o una assemblea costituente eletta per questo solo ed unico obiettivo.
Aggiungendo subito dopo: se questo percorso non vi piace o siete contrari, sappiate che io andrò comunque avanti seguendo la via parlamentare e utilizzando l’articolo 138 della Costituzione che stabilisce appunto il percorso per le modifiche costituzionali. La Meloni ha già usato questa tecnica varie volte, ultima delle quali il 30 aprile quando ha convocato i sindacati per informarli del decreto sul lavoro (cuneo, sgravi, lavoro precario ed altro) già pronto a che sarebbe stato approvato l’indomani, il 1 maggio, festa del lavoro.
Vedremo che cosa diranno il Pd di Elly Schlein, il Movimento 5 Stelle di Giuseppe Conte e la coppia che scoppia di Carlo Calenda e Matteo Renzi. Ma quello su cui è importante fissare l’attenzione, è capire perché la Meloni ha tanta fretta di mettere mano alla carta costituzionale. Il ritornello che ha segnato la prima Repubblica, la sua fine, l’inizio della seconda ancora incompiuta che metteva come base il mancato funzionamento dello stato è ormai chiaro a tutti che è una coperta troppo corta e ormai inservibile per giustificare modifiche costituzionali.

Fino ad oggi, tutte le volte che si è intervenuti a modificare la nostra carta dei valori , c’era sempre l’obiettivo – non dichiarato ufficialmente – di provare a rafforzare la solidità e la tenuta della coalizione in quel momento al governo. Non è cambiando la Costituzione che lo stato improvvisamente comincia a funzionare come un orologio. La presidente del consiglio ha sicuramente questo obiettivo, ma non è il principale.
Giorgia Meloni vuole scrivere una costituzione in cui il pensiero della destra post fascista stabilisce la regola principale che è quella dell’uomo solo (o della donna) al comando, dove tutti gli altri organi dello stato sono subalterni e pesi e contrappesi che in uno stato liberale funzionano per mantenere l’equilibrio tra esecutivo, legislativo, giudiziario ed amministrazione pubblica vengono sacrificati in nome della governabilità. Che, senza mai scordarlo, diventa automaticamente solo esercizio del potere tipico della peggiore caserma se la qualità della classe politica non supera la sufficienza.
Che Giorgia Meloni voglia affermare la destra e il suo pensiero lo abbiamo già visto in questi mesi attraverso le sortite “intellettuali” di alcuni ministri di Fratelli d’Italia. Ricordate le tesi del ministro della cultura Gennaro Sangiuliano e di quello dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida? Il primo provò a sostenere che nel pensiero di Dante ci sono le basi della destra italiana, il secondo ha lanciato l’allarme sul pericolo di una “sostituzione etnica” di fronte al calo demografico degli italiani. Queste parole non sono da prendere come fossero esuberanti manifestazione del pensiero della destra contemporanea, fanno parte del bagaglio di chi crede e vuole ribaltare una egemonia culturale che sarebbe nelle mani della sinistra.
Altrimenti, passando dalle teorie (se vogliamo così definirle) ai fatti che bisogno c’era di fare un decreto per cambiare il vertice della Rai liberando un posto per l’attuale capo azienda da estromettere con un decreto che sancisce che a 70 anni i direttori degli teatri lirici devono andare in pensione? Ma come, solo pochi mesi fa il governo di Giorgia Meloni ha fatto un decreto per mantenere al posto di presidente dell’Istat un ultrasettantenne gradito alla Lega e al governo di destra e adesso vuole che a quell’età si va ai giardinetti?
Dunque, alla riunione di martedì 9 maggio Giorgia Meloni esporrà le sue tesi. Difficile che scopra le sue carte fino in fondo. Dirà che si può discutere sull’elezione diretta del presidente della Repubblica come su quella del presidente del consiglio. Entrambe le soluzioni – è bene saperlo – prendono a picconate la Costituzione vigente. E comunque fanno saltare pesi e contrappesi istituzionali. Perché quella del presidente della Repubblica eletto direttamente dagli italiani riduce il capo del governo a un sottoposto del Quirinale, mentre la elezioni diretta del premier svuota il Quirinale della sua principale prerogativa, ovvero dare l’incarico di formare il governo al partito o alla coalizione che ha prevalso nelle elezioni, nominare i ministri su proposta del presidente del consiglio, sciogliere le camere di fronte alla impossibilità di governare. E comunque non assicurano automaticamente la governabilità del paese.
È probabile che la mossa della Meloni di convocare tutte le forze politiche, abbia come secondo fine anche quello di rallentare il processo di autonomia regionale incardinato nei mesi scorsi sostenuto a gran voce dalla Lega e poco amato dai presidenti delle regioni del sud e dalle opposizioni. In vista delle elezioni europee l’eventuale approvazione della autonomia differenziata potrebbe spostare soprattutto al nord i consensi in favore della Lega, cosa che la Meloni non gradisce affatto.
Vedremo presto come questa partita politica sarà giocata da tutti contendenti. Ricordando però che ogni volta che un leader politico o un partito hanno provato a forzare la mano sulla questione costituzionale sono affondati. Come è accaduto ogni volta che si è seguita la via della bicamerale, dove finti accordi una volta arrivati al dunque sono stati stracciati anche perchè le condizioni politiche iniziali non c’erano più. Ed è avvenuto anche quando – lo ricorda bene l’ex presidente del consiglio Matteo Renzi – si prova a cambiare la costituzione senza avere i numeri e usando la via parlamentare prevista dall’articolo 138. Ebbe numeri risicati alla Camera e al Senato, dovette andare al referendum popolare e lì fu affondato da un no maggioritario che segnò l’inizio del suo declino politico.