L’articolo 75 della Costituzione italiana attribuisce ai cittadini il potere di abrogare parzialmente o totalmente una legge, quando lo richiedono almeno 500 mila elettori o cinque consigli regionali. Tuttavia, una volta definita la volontà dei cittadini, è la Corte Costituzionale a pronunciarsi sull’eventuale ammissibilità della richiesta. Il referendum non può infatti abrogare leggi tributarie, di bilancio, di amnistia e di indulto, così come le leggi di ratifica dei trattati internazionali o qualsiasi legge di rango costituzionale.
La Corte deve poi esaminare in che modo il quesito referendario viene formulato e, quindi, quale sarà la dicitura che i cittadini si troveranno davanti nella cabina elettorale al momento della votazione. È proprio sulla formulazione di tale quesito che la Corte si è espressa negativamente per entrambi i referendum: sia quello “sulla cannabis” sia quello “sull’eutanasia”.
Depenalizzare la coltivazione
L’obiettivo dei promotori del referendum sulla cannabis era quello di depenalizzare la coltivazione di questa sostanza, fino ad oggi punita con la reclusione da 2 a 6 anni, ed eliminare le sanzioni amministrative accessorie, come la sospensione della patente nel caso di detenzione di stupefacente.
I promotori, anche grazie alla raccolta delle firme online svoltasi con l’utilizzo dell’identità digitale SPID, hanno raccolto in poco più di una settimana oltre di 530 mila firme. Il nome con cui è stato promosso il referendum “cannabis legale” non rappresenta però il vero significato del quesito referendario arrivato al vaglio della Corte Costituzionale. Secondo il presidente Amato, infatti, si trattava più di un referendum sulle sostanze stupefacenti che non sulla cannabis.
Il quesito veniva infatti articolato in tre sotto quesiti: il primo prevedeva la scomparsa tra le attività penalmente punite della coltivazione delle sostanze stupefacenti di cui alle tabelle 1 e 3 ex art. 14 D.P.R. 309/1990. In queste tabelle però non è neppure inclusa la cannabis che si trova invece nella tabella 2. Questo clamoroso errore è la motivazione principale su cui di fonda la declaratoria di inammissibilità del quesito che, secondo Amato, basterebbe a far violare all’Italia obblighi internazionali, limite costituzionale del referendum abrogativo.
Inoltre, il quesito non tocca altre disposizioni che continuerebbero a rimanere in piedi, prevedendo la rilevanza penale delle condotte legate alla coltivazione di cannabis.
Il presidente Amato non può essere tra l’altro accusato di conservatorismo in quanto, proprio la Corte di Cassazione con la sentenza n. 5626/2021 della VI sez. Penale aveva già espresso il suo orientamento, non considerando reato la coltivazione rudimentale di poche piante di cannabis per uso personale.
La decisione della Corte non rappresenta quindi un’inammissibilità della questione in sè, ma l’inammissibilità del mero quesito, in quanto esso racchiude un errore sostanziale. Il Giudice Amato ha sottolineato inoltre, a più riprese, la necessità che il Parlamento, e non la Corte, si adoperi a legiferare su questioni tanto sentite quanto delicate.
Referendum sull’eutanasia
Anche il secondo referendum respinto dalla Corte, quello sull’eutanasia, è stato ritenuto inammissibile per via della formulazione nel quesito. Il referendum aveva l’obiettivo, secondo i promotori, di permettere alle persone gravemente malate di scegliere fino a che punto vivere la loro vita.
Ad oggi, in Italia, possono scegliere di porre fine alle proprie sofferenze solo i pazienti per cui risulta sufficiente l’interruzione delle terapie, come previsto dalla Legge 219/2017.
La Corte Costituzionale si era inoltre già espressa sul tema dichiarando che l’aiuto al suicidio (art. 580 c.p.) non è punibile nei casi in cui la persona che lo richiede viene tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale: questo il caso di Dj Fabo.
Da queste fattispecie, tuttavia, rimangono ancora oggi esclusi tutti quei casi di persone che sono affette da patologie irreversibili, nonché di coloro che non sono in grado di assumere in modo autonomo un farmaco. In Italia queste persone non possono quindi scegliere di porre fine alle proprie sofferenze tramite l’aiuto medico attivo per la morte volontaria, questo perché il codice penale vieta l’omicidio del consenziente.
Tuttavia, è proprio l’omicidio del consenziente ad essere inammissibile per Amato, non trattandosi infatti di eutanasia. Depenalizzare l’omicidio del consenziente darebbe la possibilità di togliersi la vita in tutti i casi in cui una persona che non è né malata, né in condizioni di sofferenza trovi una persona disposta ad aiutarla. Risulta chiaro quindi come questi casi non abbiano nulla a che vedere con il concetto di eutanasia.
La questione rimane aperta, afferma Amato, “ma con un quesito del genere si sarebbe concesso l’omicidio del consenziente per chiunque e ne saremo stati tutti responsabili”. Lasciando il quesito così come era “il primo ragazzo maggiorenne che per una ragione qualunque arriva a decidere che vuole farla finita e che trova un altro ragazzo come lui che lo aiuta” avrebbe avuto la possibilità di farlo, senza alcuna ripercussione in tema di responsabilità penale.
Il Parlamento non può più essere sordo di fronte alle richieste dei cittadini.
Dalla conferenza stampa, in cui il presidente insieme agli altri componenti della Corte hanno spiegato ai non addetti ai lavori le motivazioni dell’inammissibilità, è emerso un chiaro orientamento.
Il Parlamento è l’organo preposto a gestire questioni di tale rilevanza, soprattutto quando esse vengono da una parte consistente dall’elettorato.
I conflitti valoriali sono i più difficili da sciogliere e stanno diventando i più consistenti nella nostra società. Le questioni su cui siamo in disaccordo e quelle che ci dividono devono essere discusse attraverso la formazione di una piattaforma comune di intesa. Il Parlamento, forse troppo occupato dalle questioni economiche, non dedica abbastanza tempo e attenzione nel cercare di costruire questa piattaforma comune.
Il giudice Amato ricorda che con la legge per la sedazione assistita si riuscì a trovare un punto d’incontro e a legiferare in materia. È fondamentale, quindi, che questi temi non escano dall’ordine del giorno dei Parlamenti nazionali, poiché potrebbero alimentare dissensi altamente dannosi per il tessuto comune di cui la coesione sociale ha bisogno.