Le pagine di cronaca più oscure sono come lo sporco che non si riesce di eliminare: si mette sotto il tappeto il più presto possibile perché non si veda. Quelle, passato il momento, sono archiviate in fretta e si passa lestamente ad altro. Salvo ricordare che il problema esiste sempre, sopito e comunque incombente, nessuno ha pensato di affrontarlo seriamente. Così è accaduto in Italia per l’astensionismo elettorale.
Le elezioni locali sono state precedute dal timore che pochi si sarebbero recati a votare, poi, quando la preoccupazione si è avverata, sono state seguite da un coro di pensieri, mesti e accorati. Molto ridotto il numero di votanti. Infine è scoppiato il silenzio. Sembra un tema “stagionale”, attuale in prossimità del voto, da dimenticare in fretta. Non ci si interroga sulle ragioni, non si scava nel profondo, né si cerca di porvi rimedio. Varrebbe la pena rifletterci.
Siamo, come si sa, ad un nuovo record perché, nei comuni chiamati al voto (alcuni importanti: Roma, Torino, Bologna, Milano) ha votato una percentuale inferiore al 50% del corpo elettorale. Eppure, l’Italia è uno dei paesi occidentali messi meglio quanto a frequenza, nel 2018 (elezioni politiche generali) ha votato il 73%. Aver perso tanti elettori allarma. Inoltre altera la valutazione dei risultati. Non è una novità, succede da anni. Dovremmo esserne abituati, ma stupisce sempre.
Ormai il candidato vincente non è quello capace di prendere più voti, davvero una rarità di questi tempi. Piuttosto il tal altro che non ne perde troppi, che riesce a contenere l’erosione inevitabile del flusso, insomma che perde meno. Si valutano i partiti nella capacità di fare retromarcia il più lentamente possibile, non nell’avanzata. Il migliore va cercato tra i meno sconfitti. Ci si può accontentare? Può bastare un pugno di voti, sempre più ridotto, al funzionamento della democrazia?

L’idea di fondo su cui ci si confronta è che il numero di votanti sia il criterio per misurare la partecipazione dei cittadini alla cosa pubblica, e con essa tutto il resto: il senso civico, la consapevolezza di concorrere alle scelte, l’adesione al modello istituzionale. Il modo per testare la qualità di buoni cittadini ma anche la tenuta del sistema: in fondo la scala di gradimento della democrazia. Perciò ci si allarma, e non a torto, se il numero diminuisce, se troppi mancano all’appello del voto. Perché accade?
Quali che siano le interpretazioni, il non-voto rimane il lato debole delle democrazie occidentali, perché la partecipazione è un valore certo e interiorizzato e dunque non recarsi a votare appare come una scelta intenzionale di segno negativo, un segnale di malessere: è protesta, sfiducia nella politica, disinteresse per l’andamento della cosa pubblica, se non manifesta opposizione.
Se tutto ciò è sicuramente convincente, e persino vero, risulta tuttavia inadeguata l’utilizzazione delle categorie tradizionali per spiegare il fenomeno, troppo facile fermarsi alle prime considerazioni, affrettate e a senso unico. L’astensionismo – proprio per capirne il fondamento – richiede letture su vari livelli. Non è per nulla facile interpretarlo.
Impossibile per esempio ritenere che gli astensionisti formino un blocco compatto, determinato dalle medesime scelte e dagli stessi convincimenti. Non lo sono né sul piano della composizione sociale, né su quello delle motivazioni. Se è largamente presente un astensionismo da alienazione, esiste anche un non-voto che è espressione consapevole di scelta politica. Lo si registra nei referendum costituzionali abrogativi in cui è richiesto un quorum per rendere valido il voto. Non votare è un modo drastico, anche opinabile ma efficace, per contrastare il voto. Si dissente dai quesiti, oppure si ritengono irrilevanti le questioni prospettate con tanta enfasi.
Più in generale non può sfuggire il legame tra partecipazione al voto e solidità di una democrazia, a prescindere dai temi di attualità e dalle questioni contingenti. Quando non sono in gioco scelte decisive per il paese e per i singoli, è probabile (inevitabile) che sia bassa l’affluenza alle urne. L’assenza è espressione di tranquillità personale, e fiducia nelle dinamiche del sistema. Così infatti succede in genere nei paesi anglosassoni, in cui, appunto, è più diffusa (che da noi) la percezione dell’inattaccabilità del sistema democratico.

Una riprova di ciò è data proprio da certe (apparenti) smentite registratesi in America ma anche in Europa occidentale: quando avanzano movimenti populisti, se si affacciano sulla scena gruppi estremisti, quando emergono personalità, come Donald Trump, che diffondono parole d’ordine inquietanti e agiscono in modo irruento, ecco che il sistema percepisce una minaccia e si risveglia: cresce il numero dei votanti.
L’ambiguità dell’equazione partecipazione-democrazia è riscontrabile chiaramente in alcuni paesi dell’Est-Europa e in altri (dalla Russia alla Cina), nei quali l’altissima affluenza non corrisponde affatto alla qualità democratica delle istituzioni né all’effettivo pluralismo sociale e alla concretezza delle possibilità di cambiamento. Le “maggioranze bulgare” indicano più di un fenomeno locale. Il voto così massiccio è antidemocratico: consenso organizzato dall’alto, eterodiretto, plebiscito a fini di perpetuazione del potere interno e di conservazione dell’autorità precostituita.
Prima di censurare – come pure è doveroso – il non voto di tanti, è indispensabile fare i conti con le origini del fenomeno e con i suoi sviluppi nel tempo. Quanto alle prime, ci portiamo dietro l’eredità pesante dell’apatia e del disinteresse. Non sono solo un retaggio, frutto di egoismi e di mancata percezione dei doveri di solidarietà sociale. Piuttosto sono la conseguenza delle troppe disillusioni accumulate di fronte all’inerzia della politica e all’incapacità di soddisfare i bisogni sociali. Una forma di protesta e di contestazione. Se l’offerta politica è così scarsa, deludente, inadeguata, è difficile esigere l’interesse della gente.

Ma non basta. E’ importante considerare quanto avvenuto più di recente. La crescita dell’astensionismo e la problematicità della collaborazione del cittadino alla gestione della cosa pubblica sono un segno – non l’unico – dei profondi cambiamenti intervenuti nel tempo. Esprimono uno sradicamento sociale. La perdita di riferimenti. Un disorientamento di fronte a troppi cambiamenti, un’assenza di visione riguardo al futuro. A tutto ciò, è possibile cercare di porre rimedio, servono passi per incrementare la partecipazione responsabile.
Si è ridimensionata la collocazione del cittadino, dunque dell’elettore, nel tessuto sociale, che ha perso la sua forma rassicurante perché sottoposto a vertiginosa trasformazione, dunque frantumazione. Sfumano i legami con il mondo originario, fonte di sicurezza. Ci si avventura in nuovi territori, spesso si brancola nel buio, gli approdi sono insicuri e fragili, si finisce per “migrare” senza bussola.
L’appartenenza ad una formazione politica è sostituita dall’identificazione (inevitabilmente più fragile e ondivaga) con un’area politica, una coalizione, uno schieramento composito. Il rapporto diretto partito – elettore cede il passo alle forme di comunicazione a distanza, impersonali e fragili. In questo contesto il rischio è che, a prevalere, non siano le idee, ma i leader. Magari quelli senza troppe idee convincenti. La centralità del pensiero arretra di fronte alle impellenze del momento, alle strategie comunicative, alla ricerca di figure nuove, sempre più carismatiche, che sappiano convincere e trascinare.
La maturità di una democrazia si misura certo dal grado di partecipazione, ma il voto non è l’unico momento per misurarlo. Né forse il primo. Piuttosto questo giunge a conclusione di un percorso, alla fine di un processo di consapevolezza che spetta a ciascuno costruire. Il significato della diserzione di massa è più complesso e radicale di quanto appaia a prima vista. L’astensionismo, frequente ed esteso, racconta anche il bisogno di ciascuno di ritrovare sé stessi, di riuscire a riconquistare il ruolo smarrito: essere membri responsabili della comunità.