I banchetti montati agli angoli di strada. I militanti impegnati a discutere con i passanti e a convincerli a firmare le schede. Le campagne per sensibilizzare la gente. Gli affannosi appelli finali per raggiungere il quorum, spesso incerto sino alla scadenza.
Ormai, nella storia dei referendum, sono un ricordo; le innovazioni rischiano di renderli pagine datate, folclore di altri tempi. Sono metodi superati, travolti dalle novità. Non dobbiamo forse cambiare abitudini, abbandonare vecchi schemi, dare spazio alla tecnologia?
Ora sperimentiamo meccanismi nuovi, moderni, al passo con la velocità e l’immediatezza che contraddistinguono il mondo d’oggi: la vita privata ma anche, fortunatamente, l’accesso ai servizi, lo svolgimento di compiti.
Le firme possono essere raccolte in via telematica, non serve più farlo di persona, recandosi nei punti di raccolta, per mettere il proprio segno e aderire all’iniziativa. Una procedura che comprendeva anche la partecipazione a dibattiti, momenti di discussione: il dialogo fitto tra le persone, il confronto delle idee.
È bastato, per cambiare tutto, un emendamento alle norme di attuazione dei referendum, introdotto nella legge di conversione del decreto del 2021 su semplificazioni e Piano nazionale di resistenza e resilienza (Pnrr).
Grazie alla nuova normativa – ispirata all’idea di semplificare le cose sull’onda delle restrizioni pandemiche –, per raccogliere le firme è sufficiente attivare la piattaforma pubblica o aprire un sito (per ora a pagamento ma l’impiccio verrà tolto all’inizio 2022), si può partecipare all’iniziativa «mediante documento informatico, sottoscritto con firma elettronica qualificata». Non occorre alcuna autenticazione.
Rimangono invariate le regole generali, a cominciare dal numero di firme necessarie: 500.000 per il referendum abrogativo (art. 75 Cost) e confermativo (art. 138 Cost), 50.000 per l’iniziativa popolare di legge (art. 71 Cost). Così come sono immutate le norme che prevedono i controlli, successivi all’iniziativa, di legalità (Corte di Cassazione) e di ammissibilità (Corte Costituzionale).
Nonostante l’istituto sia rimasto il medesimo nelle sue regole di base, il momento sembra diverso e ha già prodotto conseguenze. Sono bastati pochi giorni per raccogliere e superare il quorum delle 500.000 firme per i referendum sulla legalizzazione della cannabis (art. 73 t.u.l.stup.) e sull’eutanasia (abrogazione dell’art. 579 c.p.). Via libera veloce, con una facilità e rapidità sorprendenti. Mai avuta un’adesione così tempestiva e massiccia. Per alcuni, anche allarmante.
Il dato, a parte gli entusiasmi dei sostenitori delle piattaforme digitali per risolvere i problemi della gente, ha sollevato preoccupazioni, riflessioni critiche. Ne è derivato un fiume di proposte per modificare i referendum, come i requisiti, le modalità di svolgimento, i controlli. Aspetti differenti e di diverso peso specifico.
La prima impressione però, forse solo a causa della tempistica, è sembrata quella di una reazione “conservatrice”, tesa a impedire l’ondata dei referendum, a limitarne il ricorso rendendone più complicato l’accesso, ora che la firma digitale l’ha semplificata.
Si teme il diluvio di firme, lo stravolgimento delle funzioni legislative affidate al parlamento. Necessario arginare la tempesta prima che sia inarrestabile. Sull’onda dell’entusiasmo, è stata già lanciata l’idea di un referendum contro il green-pass. Il pericolo è quello di una dinamica istituzionale basata sul “botta e risposta”. Alle leggi che non ci piacciono (o almeno non sono gradite ad alcuni), rispondiamo subito con i referendum.
Di fronte alle firme on line, l’argomento critico più diffuso, strettamente tecnico, non è affatto peregrino: il digitale è facilmente manipolabile, abbiamo mille esempi di intrusioni, le firme on line sono falsificabili, manca un serio controllo di autenticità. Insomma le firme non sono proprio affidabili.
Si tratta di un aspetto importante, però anche non risolutivo. Magari è anche vero che possano esserci frodi, però la cosa è emendabile facilmente. Non dovrebbe incrinare il ricorso al mezzo. Se il sistema ha delle falle, correggiamolo, introduciamo verifiche di autenticità delle firme. Non sarà per questo che possiamo rinunciare ai vantaggi. Sarebbe come gettare il bambino con l’acqua sporca.
Il successo della raccolta di firme digitali per i referendum non può essere spiegato con la rilevanza degli argomenti trattati (innegabile per la questione dell’eutanasia, meno per quella della cannabis). Difficile percepire una sensibilità sociale più spiccata per questi temi, è chiaro che la semplificazione ha favorito l’iniziativa rendendola più praticabile.
In molte altre occasioni sono state affrontate questioni importanti e tuttavia la raccolta delle firme è stata tormentata. Certamente la facilità di accesso ha favorito la partecipazione, a parte il sospetto – non dimostrato – di manipolazione dei dati. La possibilità di sottoscrivere i quesiti senza fatica, con un semplice click, nemmeno una firma, facendolo comodamente da casa, ha determinato il boom di adesioni.
Di contro, un sentiero sicuramente impervio è quello che caratterizza un’altra linea di pensiero, basata sul rapporto negativo tra semplificazione (delle procedure) e qualità (dell’opinione espressa). È stato osservato che il metodo precedente, più articolato, aveva effetti sull’assunzione di responsabilità dei firmatari. La stimolava e incrementava. Così come favoriva la riflessione, evitando risposte impulsive, viziate da fraintendimenti.
C’è sicuramente una correlazione tra procedura e risultato. È immaginabile che la complessità della fase spinga ad una maggiore ponderazione. Se si decide di uscire di casa e di andare a cercare un banchetto, se si accetta di perdere un po’ del proprio tempo, mentre si potrebbero fare mille altre cose, c’è da supporre che accada perché si è riflettuto, e maturato un convincimento.
Il “costo” organizzativo della firma è dunque una forma indiretta di garanzia e serietà. Invece la semplicità di un click – tra chissà quante operazioni compiute ogni giorno persino in modo automatico – può tradursi in approssimazione. È una concessione alla velocità che può generare fretta e superficialità: non la migliore premessa per una scelta consapevole.
L’intero impianto costituzionale del referendum del resto, con i suoi modi e tempi, dalla raccolta firme alle successive verifiche, alla previsione del voto solo nell’anno successivo, vuole alla fine suggerire una cadenza più lenta e ponderata. Un altro passo.
Non a torto. Intanto serve un “distacco emotivo” dall’approvazione della legge. Spesso è travagliata, accompagnata da contrasti e lacerazioni. L’immediatezza non è buona consigliera. Poi occorre la possibilità di riflettere e di decidere. Gli strumenti ed occasioni per farlo. Le questioni importanti non devono essere affrontate d’impulso, non sono risolvibili con tagli netti, né possono ridursi ad una conta dei sì e dei no.
Solo per rimanere alle questioni della cannabis e dell’eutanasia, è dubbio che le ulteriori tappe siano altrettanto veloci e senza inciampi. Si prospetta che l’ammissibilità della coltivazione della cannabis e della stessa eutanasia dipenda da certe condizioni. Per esempio, per quest’ultima, da presupposti come le particolari condizioni di salute, l’espressione di volontà del soggetto. Insomma, tecnicamente, sono situazioni difficili da determinare con la semplice abrogazione di norme (quindi con i referendum) e richiedono invece nuove discipline, altre regole.
Il problema sembra essere quello di non rinunciare alla semplificazione resa possibile dalla tecnologia ma, nello stesso tempo, di non compromettere la necessità di riflettere su temi cruciali. Al tempo dei treni ad alta velocità, sarebbe singolare la nostalgia per le carrozze a cavallo, solo perché rendono il viaggio più lungo e permettono di discorrere piacevolmente con gli altri viaggiatori. Troviamo un altro modo. Il ritorno al passato non è soluzione praticabile.
In realtà, quello delle firme digitali rischia di essere un falso problema, maschera la crisi della politica e l’incapacità delle forze politiche di affrontare in parlamento le questioni. Proprio in tema di eutanasia, non si può tacere che i partiti hanno lasciato scorrere inutilmente l’intero anno concesso dalla Corte Costituzionale – investita della legittimità della norma (art. 580 c.p.) sull’aiuto al suicidio di DJ Fabo – perché introducesse regole più conformi al dettato costituzionale.
Nulla toglie che l’istituto del referendum abbia bisogno di rivisitazione e di essere adeguato ai tempi. A prescindere però dalle suggestioni della bolla delle firme digitali, e dall’intento di frenare l’ondata che si preannuncia.
L’aumento del numero delle firme necessarie sarebbe giustificato dai cambiamenti demografici, cioè dal fatto che la popolazione è aumentata rispetto a quella che nel 1946 aveva fatto stimare in 500.000 il numero di elettori capace di assicurare una percentuale ragionevole di rappresentanza per attivare il meccanismo. Così come il vaglio preventivo, rispetto al maggior numero di iniziative potenzialmente infondate, servirebbe come filtro rispetto ad attività economicamente dispendiose ed inutili.
Però il tema centrale, purtroppo ricorrente, è l’inerzia della politica e la sua abdicazione al ruolo di risoluzione dei conflittie di adeguamento dell’ordinamento alle nuove esigenze. Per quanto la popolazione possa essere chiamata a dire la sua, è palese che la più parte dei problemi non possa essere affrontata con la secca alternativa tra il sì e il no.
Il referendum salvo casi particolari, si rivela inadeguato. Servono piuttosto normative articolate e necessariamente complesse. Ma è proprio sul terreno della progettazione che si avverte la colpevole latitanza della politica.
Lo dimostra la medesima decisione di introdurre il digitale, in sé persino utile per facilitare l’accesso all’istituto, ma con implicazioni opposte. Essa in fondo è un’ammissione di colpa del mondo politico, un’attestazione dell’incapacità propria di trovare soluzioni, una cessione di responsabilità.
L’ampliamento del ricorso ai referendum suona come supplenza alla mancanza di qualità propositiva. Il parlamento riesce a fare karakiri persino quando si apre alla modernità. L’innovazione in questo caso ha il sapore amaro della delegittimazione di un ruolo irrinunciabile. Pessimo segnale, di questi tempi.