Prove di forza al Senato. Il leader della maggioranza democratica Chuck Schumer mette in agenda per domani la discussione del “For The People Act”, la riforma elettorale federale disegnata per controbilanciare le misure restrittive sul voto imposte da alcuni Stati. E domani si saprà se ci sono i voti, 60, della supermaggioranza per portarla avanti e, soprattutto, vedrà se i suoi compagni di partito sono con lui.
Difficilmente i democratici, che sono 50, troveranno gli altri 10 voti necessari per far avanzare la proposta di legge. Questo perché con il filibuster bastano 40 voti dell’opposizione che una proposta presentata dalla maggioranza viene bloccata.
Chuck Schumer dà per scontato che non avrà nessun appoggio dall’opposizione. Quello che vuol capire è se ci sono defezioni all’interno del partito ed usare questa sconfitta per cercare di modificare le regole del filibuster.
La maggioranza democratica al Senato è minima: i 100 seggi sono equamente divisi tra repubblicani e democratici. La differenza la fa il presidente del Senato, istituzionalmente il vicepresidente, che dà il voto solo per rompere l’equilibrio. Basta un solo senatore democratico dissenziente che la maggioranza viene meno. Ed i brontolii tra i dem non sono mancati. Il più maldisposto è stato il senatore Joe Manchin che durante il weekend ha voluto una serie di cambiamenti al disegno di legge. Modifiche che sono state accettate dal partito.
La strategia di Schumer è quella di mettere in discussione la proposta di legge, i repubblicani la bloccheranno con i 40 voti e a questo punto lanciare la campagna contro il filibuster, la regola che blocca tutta l’attività parlamentare e mette in discussione i programmi della Casa Bianca. Ma su questo i democratici sono divisi: non tutti concordano nel cambiamento delle regole. D’altronde quando loro nella passata amministrazione erano in minoranza hanno usato il filibuster per bloccare i repubblicani che volevano modificare l’Obamacare. L’intransigenza dei repubblicani nel bocciare la formazione della Commissione d’inchiesta per la sommossa del 6 gennaio ha evidenziato come in un clima così polarizzato il filibuster sia anacronistico. Non si è riusciti a trovare l’accordo neanche per una indagine parlamentare per indagare sul più grave attentato interno alla democrazia del Paese.
Lo scontro è filosofico ma anche pratico. Può un partito di maggioranza essere sempre bloccato da una minoranza intransigente? Il filibuster era stato creato come strumento per forzare la mediazione tra i due partiti. Ma se la controparte la mediazione non la vuole fare si trasforma in predominio della minoranza. E tutti al Senato si rendono conto dei vantaggi immediati che si otterrebbero cambiando le regole , ma anche dei rischi che queste modifiche comportano in futuro. Per cambiare le regole sul filibuster basta la maggioranza semplice. Joe Manchin con la senatrice Kyrsten Sinema, ma con loro ci sono altri democratici, sono contrari. Da vedere se il leader della Maggioranza riuscirà a fargli cambiare parere.
Al Senato la proposta avanzata da 21 senatori di entrambi i partiti come alternativa al piano del presidente Biden per la modernizzazione delle infrastrutture fa lenti progressi. I senatori si incontreranno con il presidente nei prossimi giorni. Il piano da loro proposto prevede una spesa di mille miliardi di dollari per i trasporti, la creazione di una rete nazionale di internet e telefonia a banda larga e la rete idrica ed elettrica. Nella proposta però non vengono contemplate le spese sociali, gli asili nido, il miglioramento del sistema scolastico e gli investimenti per la tutela dell’ambiente. I senatori più a sinistra, Bernie Sanders, Elizabeth Warren, Ed Markey sono contrari al piano e spingono la Casa Bianca ad accantonare la ricerca dell’accordo bipartitico e agire autonomamente. In questo caso l’opposizione non potrebbe bloccare con il filibuster l’iniziativa della maggioranza perché i piani finanziari e i decreti di spesa non necessitano della maggioranza qualificata, ma solo di quella semplice. Probabilmente questa sarà la strada che Biden suo malgrado sarà costretto a prendere se i repubblicani non accetteranno l’American Jobs Plan, il suo piano da mille e settecento miliardi di dollari. Una riunione è stata convocata dalla Casa Bianca per i prossimi giorni. Da capire anche se il senatore Joe Manchin che vuole un piano accettato sia dai democratici che dai repubblicani, come voterà una volta che i repubblicani respingeranno il piano della Casa Bianca.
Il Dipartimento di Stato ha annunciato che l’ambasciatore americano in Russia, John Sullivan, tornerà a Mosca nei prossimi giorni, mentre quello russo a Washington, Anatoly Antonov, è tornato ieri nella capitale federale. I rapporti tra Mosca e Washington si erano irrigiditi nei mesi scorsi dopo che il presidente Joe Biden aveva definito il premier russo Vladimir Putin un assassino. Mosca ritirò il suo ambasciatore e così fece anche Washington. Al vertice di Ginevra si era deciso di far tornare i due diplomatici nelle loro sedi.
Il Washington Post dà ampio risalto agli incontri dei giorni scorsi tra Donald Trump e il CFO della Trump Organization Allen Weisselberg. Contatti di lavoro alla Trump Tower dove ci sono gli uffici dell’azienda ma anche dove l’ex presidente ha il suo appartamento a Manhattan . Nelle indagini condotte dalla procura Distrettuale è stato interrogato dal Grand Jury anche Jeffrey McConney, il collaboratore più stretto di Weisselberg. Le testimonianzae al Grand Jury sono coperte dal segreto istruttorio.
Secondo quanto affermato dall’ex avvocato di Donald Trump, Michael Cohen, se c’è una persona che conosce tutti i segreti dell’ex presidente è proprio Weisselberg da più di 40 anni amministratore delle sue aziende. Cohen è sicuro che Weisselberg patteggerà la sua testimonianza con gli inquirenti in cambio dell’immunità, ma il fatto che Weisselberg vada tutti i giorni negli uffici a stretto contatto con Trump smentisce questa ipotesi.