Si apre in Senato il secondo processo all’ex presidente Donald J. Trump, accusato questa volta di incitamento all’insurrezione per l’assalto a Capitol Hill da parte dei suoi sostenitori lo scorso 6 gennaio. L’obiettivo palese dell’incriminazione è duplice. Da un lato, la condanna di Trump servirebbe a scoraggiare analoghe iniziative eversive future perché attesterebbe due elementi fondamentali: in una democrazia non si può cercare impunemente di sovvertire con la violenza il legittimo risultato di libere elezioni; neppure il presidente è al di sopra della legge. Dall’altro lato, dimostrare la colpevolezza di Trump permetterebbe di impedire all’ex presidente di candidarsi nuovamente alla Casa Bianca nel 2024 o al Senato federale in rappresentanza della Florida (dove ha trasferito la sua residenza, spostandola da New York City a Mar-a-Lago) tra meno di due anni, quando scadrà il mandato del repubblicano Marco Rubio a Washington. In questo caso, infatti, a Trump sarebbe applicabile l’interdizione dagli uffici pubblici, prevista come sanzione dalla sezione 3 del XIV emendamento della Costituzione nei confronti di chi si sia macchiato di coinvolgimento in una insurrezione o in una ribellione contro lo Stato federale.
Le prove a carico di Trump sono schiaccianti. È sufficiente ascoltare il suo comizio del 6 gennaio, quando ha invitato i suoi sostenitori a marciare sul Campidoglio e a fare sfoggio di forza perché non avrebbero potuto riprendersi il loro Paese con la debolezza. Di fronte a queste affermazioni eversive, non è possibile invocare la libertà di espressione, tutelata dal I emendamento, perché la sollecitazione di un reato non rientra certo nell’ambito della libertà di parola.
Tuttavia la costituzionalità dell’impeachment di un presidente il cui mandato è già terminato è per lo meno dubbia. La messa in stato di accusa, infatti, è formalmente finalizzata a rimuovere dalla carica chi si sia reso colpevole di “gravi crimini e misfatti”. L’insurrezione e la sua istigazione si configurano indubbiamente come tali. Ma che senso può avere destituire dalla Casa Bianca chi non è più presidente?
Inoltre, l’impeachment non rappresenta un procedimento giudiziario, ma costituisce un atto politico. Non per niente, ad avviarlo è la Camera dei Rappresentanti e a esprimere il giudizio è il Senato. Per la condanna non è tuttavia sufficiente la maggioranza semplice. Serve una maggioranza qualificata dei due terzi dei senatori, cioè 67 voti. E qui cominciano i problemi concreti. I seggi al Senato, però, sono equamente spartiti tra i due partiti: 50 ai democratici e 50 ai repubblicani. Quindi, per stabilire la colpevolezza di Trump sarebbe necessario che ben diciassette repubblicani si schierassero dalla parte dei democratici. Questa eventualità non appare molto probabile. Anche dopo gli avvenimenti del 6 gennaio il Congresso continua a essere spaccato lungo la faglia dell’appartenenza di partito. In particolare, il 26 gennaio il senatore repubblicano Rand Paul del Kentucky ha presentato una risoluzione procedurale volta a stabilire l’impossibilità di sottoporre a impeachment un ex presidente in modo da chiudere il processo a Trump prima ancora del suo inizio. La mozione è stata bocciata con 55 voti contrari e 45 a favore. In tale occasione, dunque, hanno cambiato fronte appena cinque senatori repubblicani, ovvero meno di un terzo di quelli che sarebbero indispensabili per ottenere la condanna di Trump.
I numeri che sulla carta mancano per stabilire la colpevolezza di The Donald non solo l’unico problema. In ragione del mantenimento di una sostanziale contrapposizione tra democratici e repubblicani in seno al Senato, il processo a Trump darà un contributo non indifferente a inasprire le tensioni al Congresso e a esacerbare la spaccatura tra i partiti in una settimana cruciale per l’iter legislativo del piano da 1.900 miliardi di dollari elaborato dal neopresidente Joe Biden per arginare la pandemia del covid-19 e fronteggiare le sue ricadute sull’economia statunitense, gettando le basi per la ripresa del Paese. Inoltre, quale che sia il giudizio finale su Trump, il verdetto del Senato rischia di essere comunque controproducente per i difensori della democrazia americana. L’assoluzione dell’ex presidente, più che verosimile sulla base del precedente voto del 26 gennaio, vanificherebbe l’impiego della sua incriminazione come deterrente per ipotetici tentativi insurrezionali futuri. La sua condanna, invece, accrediterebbe le teorie cospirative condivise dai suoi sostenitori, che continuano a non riconoscere la legittimità dell’elezione di Biden, trasformerebbe Trump in un martire e finirebbe per tornare a galvanizzare i trumpisti, in parte delusi dal fatto che lo scorso 20 gennaio il loro leader abbia abbandonato la Casa Bianca senza offrire un’ultima tangibile resistenza. In altre parole, il processo a Trump potrebbe trasformarsi in un cul-de-sac politico per il partito democratico. Di fronte a questa sorta di plausibile no win game per i democratici viene da chiedersi quale motivazione li abbia spinti in un vicolo cieco, se non l’impellente necessità recondita di sfruttare l’impeachment come collante per tenere unito un partito che, pur uscito vincitore dalle elezioni del 2020 e dalla loro appendice in Georgia all’inizio di gennaio, si presenta fortemente diviso tra una componente moderata e un’ala radicale, ma che negli ultimi quattro anni ha trovato proprio nell’avversione a Trump il proprio tessuto connettivo nei momenti di bisogno. Se così non fosse, risulterebbe difficile comprendere la fretta con cui è stato istruito il processo, evidenziata dal fatto che, per giorni, non è stata fatta chiarezza sulla durata e sulle modalità di svolgimento del dibattito nonché sulla convocazione dei testimoni.

Biden ha più volte dichiarato di non volersi intromettere nella procedura contro il suo predecessore in quanto l’impeachment è di esclusiva competenza del Congresso. Nondimeno ha una carta a disposizione per uscire da una possibile impasse che mette a repentaglio anche l’approvazione del suo stesso piano anti-covid-19. Uno dei primi atti del presidente Gerald Ford dopo le dimissioni di Richard M. Nixon a seguito dello scandalo Watergate nel 1974 fu la concessione al suo predecessore del perdono presidenziale per “tutti i reati che aveva commesso, che avrebbe potuto commettere o ai quali avrebbe potuto prendere parte”. Un gesto analogo da parte di Biden aiuterebbe a rimarginare le ferite che continuano a dilaniare la società statunitense, consoliderebbe lo spirito di unità nazionale con cui il neopresidente ha inaugurato la propria amministrazione e non affosserebbe la funzione deterrente dell’incriminazione di The Donald in quanto non costituirebbe un’assoluzione di Trump dal momento che la grazia per un crimine comporta ovviamente l’attestazione, per lo meno implicita, della colpevolezza.
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