I recenti attentati terroristici di Parigi e di Vienna non hanno suscitato, come ci si poteva aspettare, una nuova ondata di polemiche contro l’immigrazione : soltanto l’ineffabile Matteo Salvini ha continuato a battere su questo tasto, ma per denunciare un’altra minaccia di cui gli immigrati sarebbero latori, quella di diffondere ulteriormente il virus, mentre potrebbe essere confortevole trasformare l’attuale ‘tracciamento’ in una vera, e più semplice, caccia all’untore, più facilmente individuabile perché straniero, spesso negro, sempre mussulmano.
Vale forse la pena di ricordare come l’attuale ‘terrorismo islamico’ possa in certa misura essere considerato – ma esplicitamente nelle dichiarazioni di tanti suoi leader, da Komeini a Osama bin Laden – come la continuazione di quella guerra santa (Jiahd) scatenata da Maometto nel VII secolo e che portò al fulmineo espandersi dell’Islam dalla Spagna al nord dell’India, un’estensione mai raggiunta neppure dell’impero romano. Certamente non sarebbe corretto parlare di “impero islamico”, poiché l’Islam non conobbe mai un governo centralizzato, non almeno sino all’arrivo dei turchi ottomani che, conquistata Bisanzio-Costantinopoli, si sostituirono di fatto all’impero romano d’oriente e assumendo, per così dire, la leadership del mondo islamico, rovesciarono l’atteggiamento difensivo tenuto nei confronti delle crociate per guidare un immenso esercito fino ad assediare Vienna – un’impresa che ricorda da vicino la spedizione del re persiano Dario contro Atene, avvenuta solo venti secoli prima. Corsi e ricorsi : la leadership del mondo islamico sembra essere tornata oggi alla Turchia, che, dopo la parentesi laicista voluta da Kamal Ataturk, pare essere tornata uno stato confessionale, anche se il potere supremo non è nella mani degli Imam, ma di un ‘semplice’ presidente della repubblica.
Come tutti ben sanno, dopo la fine della prima guerra mondiale, proprio mentre Ataturk faceva della Turchia (che pure si era schierata con le sconfitte potenze centrali) uno stato relativamente ricco e potente, Francia e Inghilterra occuparono quei territori dell’Africa settentrionale e del Vicino Oriente, fino ad allora posseduti dall’impero ottomano. Ma bisogna ricordare che il primo colpo era stato sferrato proprio dall’Italia, che nel 1912 gli aveva sottratto la Libia, inaugurando, potremmo dire, la colonizzazione dell’Africa, se questa miserabile gloria non andasse attribuita invece al Belgio, che sin dal 1908 aveva trasformato in colonia un possesso privato del suo re – e fu forse la gestione più feroce di cui si abbia memoria. Ce se ne può fare un’idea anche solo rivedendo il vecchio film di Ettore Scola Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l’amico misteriosamente scomparso in Africa?.
In verità gli inglesi – fors’anche perché già preoccuparti delle turbolenze che cominciavano a svilupparsi nel loro impero indiano – preferirono curare i loro interessi nel Vicino Oriente lasciando sopravvivere entità statali preesistenti (Giordania, Siria e Libano) su cui esercitavano una forte influenza attraverso mandati, senza intervenire militarmente, almeno fino a quando, tra il 1947 e il 1948, in seguito alla risoluzione delle Nazioni Unite, imposero in Palestina, e dunque nel cuore della Giordania, la costituzione dello Stato di Israele. Invece, la Francia trasformò le entità statali disposte lungo la costa meridionale del Mediterraneo, Tunisia, Marocco e Algeria, ma anche il Senegal, in veri e propri possedimenti coloniali, che conquistarono la loro indipendenza, generalmente in modo pacifico, con l’eccezione dell’Algeria, fino a quando la saggezza e il coraggio del generale de Gaulle non impose lo sgombero dei pieds noirs. E siamo nel 1962.
Ma è proprio allora che cominciò a prendere corpo un fenomeno, forse prevedibile, ma largamente imprevisto : le popolazioni dei nuovi stati si resero presto conto che indipendenza non significava benessere : i coloni avevano lasciato bensì belle città moderne (Tunisi fra tutte, ma anche Algeri, dettagliatamente raccontata da Duvivier nel film Pepé le Moko) ma non quelle strutture industriali che avrebbero potuto garantire un largo impiego di mano d’opera. Con l’ovvia conseguenza di una disoccupazione dilagante, essendo venuti meno anche i servizi che i nativi rendevano ai coloni : le attività lavorative si ridussero al minuto artigianato, spesso anche di pregio, e al piccolo commercio. Poiché, d’altra parte, la popolazione continuava a crescere, la prole essendo considerata una ricchezza o, almeno in prospettiva, un sostegno, l’unica soluzione fu vista nell’emigrazione, inizialmente diretta verso la Francia, nei confronti della quale, giustamente, marocchini tunisini e algerini si consideravano in credito e della quale, in qualche modo, erano stati cittadini sia pure di serie B o C.
Sarebbe di qualche interesse confrontare questo flusso migratorio dei nord-africani verso la Francia con quelli che, fra il 1880 e il 1915, portarono milioni di italiani negli Stati Uniti – ma anche in America Latina e soprattutto in Argentina, dove, a un certo punto, essi rappresentarono l’etnia maggioritaria : se non avessero parlato tanti dialetti diversi, oggi forse l’italiano, e non lo spagnolo, sarebbe la lingua ufficiale della repubblica argentina. Erano entrambi paesi scarsamente popolati, ma mentre in Argentina gli italiani furono accolti a braccia aperte, negli Stati Uniti furono ammessi (quelli che lo furono) solo dopo pesanti interrogatori e umilianti ispezioni personali. Difficile, in questo caso, parlare di accoglienza e ancora più difficile parlare di integrazione : i veri americani (cioè gli statunitensi) devono essere WASP (White, Anglo Saxon, Protestant). Nessuna meraviglia dunque che gli immigrati italiani abbiano cercato di restare uniti, andando ad abitare nello stesso quartiere : esiste ancora, nel sud di Manhattan, un quartiere (poco più che un paio di strade) chiamato “little Italy”, anche se ormai sarebbe più appropriato chiamarlo “little China”. E nessuna meraviglia che, anche grazie a tale concentrazione, gli italiani siano stati in grado di importare una potente organizzazione malavitosa, che, soprattutto nell’epoca del proibizionismo, divenne una componente importante della società americana, pur mantenendo uno stretto legame con la mafia siciliana. In questo senso si può parlare di una paradossale forma di integrazione.
Le differenze fra queste due grandi ondate migratorie sono notevoli, come lo sono pure le somiglianze. Anzitutto i migranti nord-africani in Francia non incontrarono quella prima difficoltà che si frappone ad una compiuta integrazione : il possesso della lingua. Mentre gli italiani arrivati negli Stati Uniti dovettero faticare non poco per apprendere l’inglese (tanto più che nelle diverse regioni dell’Unione le differenze sono anche abbastanza sensibili, soprattutto per la pronuncia). In cambio, fecero abbastanza presto a dimenticare l’italiano, che oggi sopravvive negli States solo come lingua di cultura ; al contrario i migranti nord-africani erano quasi tutti bilingui e proprio per questo non dimenticarono le loro lingue arabe, ciò che permise loro di mantenere stretti legami con i parenti rimasti in Africa, diversamente da quanto facevano gli italiani che tornavano nella madre patria quasi esclusivamente in veste di turisti. Invece, così come gli italiani si erano concentrati inizialmente in Little Italy, che abbandonarono ben presto, sparpagliandosi per la città, i nord-africani trovarono alloggio soprattutto nel sobborgo di Saint-Denis (sì, proprio dove sorge la maestosa cattedrale che ospita le tombe dei re di Francia!) – evidentemente mi riferisco soltanto a New York e a Parigi sia perché rappresentano le situazioni più esemplari, sia perché sono le sole città che conosco direttamente.
Diversamente dagli Stati Uniti, la Francia non è un paese multietnico: la sola popolazione che può essere considerata a pieno titolo una ‘etnia’ è quella dell’Alsazia, non per nulla oggetto di lunghe contese con la Germania ; ed è forse proprio per questo che in Francia non ci si è mai sognati di definire le qualità del ‘vero francese’. Anche per questo la Francia fu sempre un paese accogliente – soprattutto dopo la Rivoluzione chi ambiva al titolo di “citoyen” doveva soltanto aderire ai valori della République. Ma adesso la situazione si presentava come veramente nuova e inedita : anzitutto gli arrivi erano veramente molti, potendosi calcolare in decine, se non in centinaia di migliaia. In fondo madame Marine Le Pen avrebbe potuto a buon diritto strillare all’invasione (e anzi lo fece per davvero, come il suo omologo e amico Matteo Salvini che pure poteva riferirsi a numeri infinitamente più piccoli). Poi c’è un’altra questione : la Francia è una nazione largamente cattolica ; se non i credenti, almeno i praticanti sono certamente più numerosi che in Italia ; per di più aveva conosciuto in tempi lontani, ma non remotissimi, feroci guerre di religione, che si erano concluse con la strage degli Ugonotti avvenuta il 24 agosto 1572 – la famosa notte di san Bartolomeo.
Ora, i nuovi arrivati erano in larghissima parte fedeli di quella religione che, storicamente, era sempre stata considerata nemica della cristianità – e non importa se poi i mussulmani, diventati padroni di vaste aree abitate da popolazioni cristiane, si erano dimostrati ben più tolleranti di quanto lo saranno i cristiani nei loro confronti : basti ricordare l’esempio della Spagna dove i re cattolici, portata a termine la Reconquista, costrinsero i mussulmani (come del resto gli ebrei) alla conversione o all’esilio. Al contrario la Francia moderna esibì in questo frangente tutta la sua disponibilità alla tolleranza e all’accoglienza : anche per contrastare il diffuso fenomeno della preghiera in strada (ricordiamo che i mussulmani sono tenuti a pregare cinque volte al giorno) il governo e le municipalità fecero costruire nuove moschee (a Parigi ne esisteva una, grande e bellissima, fin dal 1926), spesso adattando diversi edifici, come caserme in disuso e perfino qualche chiesa sconsacrata. Non fu sufficiente.
Cosa era successo? Tutti ricordano come l’11 settembre 2001 l’Islam abbia dichiarato guerra al mondo occidentale, con un’azione che ricorda da vicino l’attacco dei giapponesi alla base americana di Pearl Harbor, avvenuta quasi esattamente sessant’anni prima (1 dicembre 1941). In verità, la distruzione delle torri gemelle e il meno riuscito attentato al Pentagono furono una dichiarazione di guerra, per così dire ‘ufficiale’ (per quanto realizzata, a quanto si sa, da dei privati), poiché già tre anni prima gli islamici avevano attaccato e distrutto due ambasciate americane, ma questo era stato in Africa : ora si dimostrava che nessuno, nemmeno la più grande potenza occidentale, poteva considerare sicuro il proprio territorio. Ma in verità questa guerra era cominciata molto prima : nel 1988 la Jiahd (guerra santa) aveva trovato un suo leader. Osama bin Laden intendeva proporsi come un nuovo Maometto, per quanto evidentemente con finalità assai diverse – non tanto sottomettere gli infedeli, quanto distruggere la cristianità, trasformando quella che era stata definita come “guerra asimmetrica” in un vero scontro fra stati e civiltà religiose. Disponendo di un ingente patrimonio, bin Laden fu in grado non solo di finanziare diversi attentati, ma anche di allestire una grossa organizzazione (al Quaeda – la base) che si proponeva quasi come un vero stato militare, che il suo seguace ed erede Abu Bakr al Baghdadi sarà poi in grado di trasformare nel califfato che riprese la guerra nel 2014, per essere sconfitto principalmente grazie all’intervento degli Armeni, un popolo cui la cristianità deve molto, ma che si è sempre ben guardata dal proteggere contro le ricorrenti aggressioni della Turchia, che già ne aveva fatto strage nel 1922.
A questo punto la guerra è tornata asimmetrica, anzi, da parte islamica affidata soprattutto a iniziative di singoli o di gruppetti fanatici, ma capaci talvolta di azioni spettacolari e sanguinose, come le stragi del Bataclan e della redazione di “Charlie Hebdo”, colpendo non soltanto la Francia, ma anche Spagna, Inghilterra e Germania dove è presente una numerosa minoranza turca, e, fuori dell’Europa, Sharm-el-sheik e Bali evidentemente in quanto paradisi delle vacanze degli occidentali. E’ nella cornice di questa lunga guerra (dura ormai da più di trent’anni) che vanno inquadrati i due recenti attentati di Parigi e di Vienna da cui abbiamo preso le mosse: diversissimi per le modalità di esecuzione e per significato, come per la provenienza degli esecutori, hanno in comune di essere stati realizzati da due giovanissimi (potremmo definirli dei ragazzi).
L’attentato portato a termine dal ventenne Kujtim Fajzulai, cittadino austriaco, nato a Moedling, a pochi chilometri da Vienna, ma di famiglia originaria della Macedonia del Nord, cioè da un paese dove i conflitti etnico-religiosi sono stati particolarmente intensi solo in certi momenti, fu, nella forma e nella sostanza, una vera azione di guerra, ma molto diversa dalle precedenti azioni del genere, normalmente suicide. Kujtim Fajzulai andò aggirandosi di notte per la città, sparando a quanti incontrava per la strada, lasciando sul terreno quattro vittime – poche, ma esemplari : gli infedeli non vanno convertiti (a differenza di quanto pensava il Profeta), vanno semplicemente sterminati. L’Austria non è certo un paese che si sia dimostrato particolarmente disposto all’accoglienza – e tanto meno lo è con l’attuale governo ; né so dire quanto si sia applicato per favorire l’integrazione. Comunque, Kujtim Fajzulai, nato da una famiglia pacifica e relativamente agiata, fin da giovanissimo aveva respirato il “richiamo della foresta” ed era entrato in contatto con la formazione terrorista “i leoni dei Balcani” che probabilmente avevano finanziato i suoi malriusciti tentativi di andare a combattere per lo stato islamico. Ed è sommamente improbabile che egli sapesse qualcosa di Vienna come ‘seconda Roma’, oggetto dell’antico tentativo di conquista da parte della Turchia. Più probabilmente egli scelse Vienna semplicemente perché ci abitava, ma soprattutto perché desiderava menare le mani e morire martire, come effettivamente gli accadde. è un perfetto esempio di mancata, e forse mai tentata ‘integrazione’.
Veramente l’azione, o, meglio, il delitto commesso dal diciottenne ceceno Abdoullakh Abuyezidvich Anzorov – l’assassinio e la decapitazione del professor Samuel Platt – non può essere definito come un ‘attentato’, né il ragazzo deve esserne considerato il vero, o il principale responsabile poiché egli agì in veste di esecutore, di esecutore di una sentenza (fatwa), assumendo quindi, a pieno titolo, il ruolo del boia – talvolta anch’egli definito ‘giustiziere’. Se poi Abdoullakh abbia svolto tale ruolo con piacere, non lo possiamo dire, ma certamente ne andò fiero, come dimostra il fatto di aver ‘postato’ sui social la fotografia del cadavere della sua vittima. La decapitazione, va ricordato, era diventata la forma rituale di esecuzione degli ‘infedeli’ , si trattasse dello sperduto reporter americano James Foley o dei ventuno cristiani copti in Libia. Ma certo, nel caso del professor Platt, la ritualità si ridusse al mero taglio della testa, poiché Abdoullakh lo aveva ucciso a coltellate dopo un’impari lotta – il professore era ovviamente inerme e ormai ultra-quarantenne. Comunque il punto centrale è un altro e va cercato nel motivo che indusse il feroce imam Abdelhakim Sefrioui a lanciare la sua fatwa. è tristemente paradossale il fatto che ciò sia avvenuto nel bel mezzo di un tentativo di integrazione : il prof. Platt insegnava in una scuola dell’estrema periferia di Parigi e quindi multietnica (sottolineo “quindi” perché è altamente improbabile che licei importanti, come il famoso Lycée Louis-le-Grand siano collocati altrove che nel centro della città). Forse eccessivamente fiducioso nelle sue doti esegetiche, il professore aveva cercato di spiegare il significato e il perché delle vignette di “Charlie Hebdo” su Maometto – e sarebbe molto interessante se qualche suo alunno potesse raccontare in che termini egli lo abbia fatto. Sta di fatto che questo pur sempre grande tentativo e questo clamoroso fallimento sembrano dimostrare qualcosa che certamente molto addolora papa Francesco : le religioni dovrebbero essere strumenti di pace, ma sono più spesso motivi di conflitto.
Accoglienza è un gesto, integrazione un processo. L’accogliere potrebbe anche essere definito come un’azione passiva, se mi si passa l’ossimoro. Ma non è sempre così : si può essere accolti su invito e persino su costrizione, come accadde (e non era certo la prima volta) con la tratta degli schiavi messa in atto dagli europei, quando, agli inizi del Seicento, cominciarono a considerare l’Africa una terra da depredare. La tratta fu descritta con forti accenti dall’Abbé de Raynal, con la collaborazione di Diderot, nel 1770. Sull’argomento tornerà, sessanta anni più tardi, Alexis de Tocqueville, denunciando come la ricchezza della democrazia americana si fondasse sul lavoro forzato degli schiavi africani. Di norma, si accoglie volentieri chi reca qualche piacere : così le visite di amici e parenti, con il sottinteso che dureranno per un tempo limitato. O qualche utilità, come quelle dell’elettricista o dell’idraulico, i quali si fermeranno solo il tempo necessario a eseguire il lavoro richiesto. In fondo, si vorrebbe poter assimilare i migranti proprio all’idraulico e all’elettricista, ma quelli, a parte che arrivano per lo più senza essere stati chiamati, lo fanno per fuggire dalla miseria o dalle guerre che infuriano nei loro paesi d’origine e poi pretendono di insediarsi a tempo indeterminato nei paesi della presunta accoglienza ; ai quali rimane soltanto l’alternativa fra espellerli – cosa non sempre ovvia e facile – o, appunto, ‘integrarli’.
L’integrazione, abbiamo detto, è un processo, cioè un’azione che si sviluppa nel tempo, articolandosi in diverse fasi in vista di uno scopo tanto preciso quanto indeterminato. Integrazione non vuol dire assimilazione, non consiste cioè nel fare di un negro mussulmano o animista un bianco cristiano o ateo ; consiste piuttosto nel fare dell’immigrato, pur conservando la sua fede, la sua cultura e, fatalmente, la sua etnia, una persona, come già detto, rispettosa delle leggi e delle usanze del paese ospitante, magari conservando tutte le possibili riserve mentali sull’efficienza di tali leggi e sulla bontà di tali usanze. Ciò è reso più difficile soprattutto dal formarsi di comunità etniche : si è già fatto cenno alla comunità siciliana negli Stati Uniti, mentre ora potremmo citare la comunità cinese formatasi nel distretto tessile di Prato, che continua a violare le leggi italiane sulla gestione del lavoro, come tutte le norme sanitarie. Ma si possono ricordare anche situazioni a stretto rigor di termini private e familiari, come i casi di quei padri che pretendono di poter punire duramente – fino alla morte – le figlie che vorrebbero abbigliarsi secondo la moda occidentale (cioè integrarsi), o che rifiutano di sposare un correligionario magari molto più vecchio di loro, e comunque non a loro gradito.
Quali i possibili rimedi, se pur ne esistono? Muoviamo dai comportamenti individuali, ovviamente fra loro diversissimi, a seconda del ruolo e della situazione sociale dei singoli cittadini italiani. Ma fra essi uno in particolare potrebbe essere decisivo, non dal punto di vista dell’accoglienza, ma proprio da quello dell’integrazione : i così detti “matrimoni misti”. «Dal dì che nozze e tribunali ed are / Diero alle umano belve esser pietose / Di se stesse e d’altrui», cantava Ugo Foscolo. Certo, alcuni di questi matrimoni sono finiti in tragedia, ma non, credo anche se fatte le debite proporzioni, di quanti matrimoni fra connazionali – la peggiori tragedie succedono in famiglia, diceva D’Annunzio (e si potrebbe risalire fino ad Agamennone e Clitemnestra). Ma d’altra parte il matrimonio non solo permette al coniuge straniero di meglio impossessarsi degli usi e dei costumi nella vita privata degli italiani, ma genererà anche figli che non potranno più rivendicare una singola ‘identità’ nazionale – del resto ‘identità’ è una parola avvelenata, come ha ben dimostrato Francesco Remotti nel suo L’ossessione identitaria : ogni singola persona, spiega Remotti ha tante diverse identità : religiosa, ideologica, politica e perfino etnica, ma spesso cambia fede, appartenenza politica, credo ideologico, mentre della propria etnia non può mai essere assolutamente certo.
Bisogna riconoscere che l’Italia – fors’anche perché costrettavi dalla Convenzione di Dublino – si è dimostrata abbastanza generosa in termini di accoglienza – magari non quanto la Germania, dove la cancelliera Merkel, unico vero uomo di stato europeo, è riuscita ad accogliere in un colpo solo un milione di migranti e a vincere le successive elezioni. D’altra parte però va anche ricordato che la repubblica italiana non dimenticò, o non pose in secondo piano, il problema dell’integrazione: ciò avvenne soprattutto con l’introduzione, nel 2015, dello SPRAR (Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati) una sorta di secondo livello di accoglienza, dove i migranti, uscendo dagli Hotspot in cui vivevano praticamente da reclusi, ricevevano i primi rudimenti della lingua italiana, per poi essere avviati al lavoro, con incarichi di pubblica utilità, come la pulizia delle strade oppure la cura dei giardini e la sorveglianza dei posteggi. Gli SPRAR presentarono fin da subito alcune grosse difficoltà : essendone la gestione affidata ai comuni, dipendevano molto dalla buona volontà di quelle amministrazioni e, di conseguenza, dall’atteggiamento della cittadinanza. Ricordo il caso di un piccolo comune emiliano di cui non mi sovviene il nome (e neppure desidero ricordarlo) dove circa trecento persone, in prevalenza donne (donne!) si schierarono per opporsi fisicamente all’accoglienza di dodici migranti donne (donne! con i loro bambini!- potrò mai finirla con questi esclamativi?) Comunque, forse anche in seguito a questo evento, gli SPRAR furono aboliti dal solito ineffabile Matteo Salvini, una volta diventato ministro dell’interno. Saranno recuperati, ma in forma e con modalità alquanto diverse dalla ministra Lamorgese. In linea di massima, l’atteggiamento degli italiani nei confronti dei migranti è stato, se non sempre amichevole, sostanzialmente tollerante. Del resto, se escludiamo le leggi antisemite varate dal fascismo nel 1938 e introdotte dalla grancassa orchestrata da Telesio Interlandi (pseudonimo di Chiaramonte Gulfi) con il quindicinale “La difesa della razza”, che andava ben oltre l’antisemitismo, gli italiani non furono mai un popolo nel quale il razzismo abbia veramente allignato. D’altra parte, siccome i fatti sono altra cosa rispetto alle idee o agli atteggiamenti, rimane che i migranti sono rimasti confinati in lavori subordinati e occasionali e sostanzialmente esclusi dall’ascensore sociale – del resto inceppato anche per i nativi.
Pochi ricordano come la prima ondata migratoria nel nostro paese sia stata costituita da donne destinate al mestiere di serve (o, come si preferisce dire adesso, di ‘collaboratrici domestiche’, dove, ricordo, l’aggettivo sostantivato ‘domestica’ veniva abitualmente impiegato per indicare la serva). Tanto che, ancora oggi, si dice “la mia filippina” per significare la mia serva. Più tardi arriveranno, soprattutto dall’Africa nera e in particolare dalla Nigeria, molte altre donne, in gran parte destinate alla prostituzione.
Ma per gli uomini andrà anche peggio. In principio furono gli albanesi. Lo ‘sbarco’ a Bari di ventimila albanesi (1991), la maggior parte dei quali raggiunsero la città dopo essersi gettati a nuoto dalla nave che li aveva portati da Durazzo, ebbe dimensioni epiche. In questo caso, Salvini avrebbe ben potuto parlare di ‘invasione’, non fosse che con gli albanesi gli italiani, e in particolare i meridionali, hanno un rapporto tutto particolare. E non tanto perché dal 1939 gli albanesi erano stati, anche se solo per un paio d’anni, cittadini italiani (Vittorio Emanuele III fu chiamato “re d’Italia e di Albania”), quanto perché da sempre esistono in Italia forti comunità albanesi e, nei pressi di Palermo, c’è un importante paese chiamato Piana degli albanesi, i cui abitanti sono cristiani di rito bizantino. Così gli abitanti di Bari accolsero questi sbarcati con molta simpatia, spesso aiutandoli, talvolta anche ospitandoli e, se pure la maggior parte venne rimpatriata, molti rimasero, trovando un onesto lavoro oppure, in alternativa, dedicandosi alla delinquenza – esattamente come era successo ai siciliani di New York. Similmente, per molto tempo gli albanesi furono ritenuti tutti delinquenti e vennero accusati anche di crimini in realtà commessi da italiani : si ricordi il caso di Erika, che uccise la madre e il fratellino, accusandone poi un albanese e suscitando così una grande manifestazione contro gli albanesi.
In verità anche prima degli albanesi erano arrivati in Italia molti migranti rumeni, che però giunsero alla spicciolata partire dal 1989, cioè quando avevano abbattuto la dittatura di Ceausescu, giustiziato assieme alla moglie (che ne fu influente consigliera, e, pur essendo poco più che analfabeta fu insignita di diverse lauree honoris causa). Poi, quando la Romania fu ammessa nell’Unione Europea, gli arrivi si moltiplicarono, tanto che oggi la comunità rumena è la più numerosa residente nel nostro paese. Non so dire se i giovani albanesi che restarono in Italia dopo lo sbarco di Bari conoscessero l’italiano, ampiamente diffuso in Albania, ma soprattutto fra i più anziani ; comunque i rumeni erano favoriti dal fatto di parlare una lingua romanza – veramente la Romania è paese ampiamente multietnico, in cui si parlano molte lingue diverse, ma quella ‘ufficiale’ è il rumeno. Quindi, arrivando in Italia, gli emigrati non incontrarono molte difficoltà ad apprendere l’italiano. D’altra parte essi si dimostrarono solerti imprenditori, dedicandosi soprattutto all’edilizia, che in Romania era stata la principale attività lavorativa, almeno fino a quando, diverse case automobilistiche non vennero a impiantarvi le loro fabbriche, avvalendosi del basso costo del lavoro – e oggi, va ricordato, anche molte imprese italiane vi delocalizzano le loro attività. Per cui i rumeni promossero una loro specifica modalità di integrazione, e furono generalmente bene accetti : l’unico appunto che si mosse loro fu di aver favorito l’arrivo degli zingari (i rom), sventurata piccola etnia, non disposta a rinunciare al proprio nomadismo e ai propri costumi e quindi refrattaria a ogni forma di integrazione.
Ma intanto, a partire dagli ultimi anni novanta del Novecento, erano cominciate altre, e ben più massiccie migrazioni, muovendo principalmente, dal Medio Oriente e dai paesi del Maghreb. Che seguirono due diversi percorsi : via terra, risalendo i Balcani ; e via mare, più breve, ma molto più pericolosa soprattutto se si considerano le dimensioni e la fragilità delle imbarcazioni. Infatti, nel corso di queste traversate del Mediterraneo sono annegate migliaia, se non decine di migliaia di persone. (Lo dico fra parentesi : personalmente non sono spesso d’accordo con le analisi socio-politiche di Roberto Saviano – di cui peraltro ammiro l’intelligenza era preparazione – ma, in questo caso, mi pare di dover condividere la definizione che egli ha dato di Matteo Salvini e di Giorgia Meloni, i quali hanno ironicamente definito quelle miserabili imbarcazioni con il loro sciagurato carico umano “taxi del mare” : “bastardi”).
Da principio furono dunque marocchini e tunisini, i quali arrivavano in Italia non per averla scelta come loro destinazione finale, ma soltanto perché più vicina: poi avrebbero cercato di raggiungere la Francia, dove potevano contare su amici e parenti. Ma l’Italia – in forza, come accennato, della convenzione di Dublino – era tenuta, come a riceverli, se non altro per identificarli: poi sarebbe stata libera di rimpatriarli. Una parola! Molti infatti si sono fermati, sistemandosi in qualche modo, spesso dedicandosi al piccolo commercio ambulante. Ma poi, molto presto, fu come se l’intero continente africano volesse riversarsi alle nostre coste : uomini e donne, giovani e più anziani, mamme con bambini intrapresero viaggi che potevano durare anche anni e avevano il sapore di tante odissee. E, come tali, furono spesso raccontate dagli stessi protagonisti e da più o meno empatici cronisti. Raggiunti, spesso a piedi!, l’Egitto o la Libia da dove, quelli almeno che erano riusciti a conservare un gruzzoletto – ma più allo scopo di ricattare i paesi europei – venivano fatti imbarcare nelle carrette del mare di cui si è detto.
A questo punto la presenza di immigrati residenti in Italia cominciava ad avere una certa consistenza numerica, anche se neppur lontanamente paragonabile a quella di altri paesi, e segnatamente della Francia : si trattava infatti di poco più di seicentomila persone. La politica cominciò quindi a interrogarsi su quale potesse essere il loro status e su quali diritti potessero godere in base al diritto internazionale. Sebbene con alcuni paesi africani esistessero già degli accordi di massima, i nuovi arrivati cominciarono a essere qualificati in base non tanto alla loro provenienza quanto alle motivazioni delle richieste d’asilo, distinguendo fra migranti ‘economici’ e migranti ‘politici’ – quasi fosse molto diverso fuggire dalle guerre o dalla fame. E furono assunti diversi provvedimenti, dapprima di carattere prevalentemente amministrativo, ma poi, sempre più spesso di carattere legislativo. La legge Martelli, risalente appunto al 1990, mentre sanciva l’espulsione (in realtà mai avvenuta) di circa duecentomila immigrati, mirava proprio a definire i requisiti necessari all’accoglimento delle richieste di asilo ; mentre la successiva Turco-Napolitano (primo governo Prodi, 1998) ebbe il grande merito di prospettare un percorso di integrazione, legato all’inserimento nel mondo del lavoro e all’istruzione. Furono entrambe cassate dalla Bossi-Fini (governo Berlusconi 2002), che introdusse addirittura il reato di complicità nell’immigrazione clandestina, di cui potevano venir accusate le ONG che avevano operato salvataggi in mare.
Rispetto al 1990 il numero degli stranieri attualmente residenti in Italia si è decuplicato passando da seicentomila a sei milioni calcolando anche le seconde generazioni, cui non è stato ancora riconosciuto lo ius soli, la relativa legge non essendo mai giunta in parlamento. Ma, a questo punto, ci troviamo di fronte a un grande paradosso : da anni si levano alti lai sulle ‘culle vuote’, sul fatto che gli italiani non facciano più figli – quasi soltanto le famiglie di immigrati hanno più di un figlio per coppia. E allora? Se non è sufficiente affidarsi a loro, basterebbe permettere, o addirittura favorire l’arrivo di immigrati giovani in modo da mantenere un giusto rapporto tra le generazioni, ossia tra lavoratori e pensionati. Non fosse che qui si presenta un altro problema, quello della progressiva scomparsa del lavoro (o almeno del lavoro subordinato) prevista da Piketty e da De Masi. Ma questo è un altro affare.
Mi è parso utile tracciare questo sommario percorso dell’immigrazione nel nostro paese (su cui si può vedere il ben più esaustivo studio di Michele Colucci, Storia dell’immigrazione straniera in Italia dal 1945 ai giorni nostri, Carocci 2018) perché esso può permettere di capire come si siano sviluppati nell’opinione pubblica i diversi, e spesso ideologicamente motivati atteggiamenti nei confronti dell’immigrazione in generale, ma anche sul tema dell’accoglienza e dell’integrazione – atteggiamenti che varrebbe la pena di confrontare con quelli assunti, per esempio, dai milanesi nei confronti delle migrazioni interne, di meridionali che si riversarono nelle città del nord Italia, dove era ripartito lo sviluppo industriale, descritte da Luchino Visconti nel bellissimo film Rocco e i suoi fratelli. Attualmente la permanenza dei migranti sul territorio italiano è, almeno teoricamente, legata alla concessione di un permesso di soggiorno, a sua volta, sempre teoricamente, determinato dall’avere un’attività di lavoro. Ora, la maggioranza degli immigrati risiede nelle regioni del nord, mentre il numero di quelli soggiornanti al sud è incerto, poiché fra di loro vi sono molti ‘irregolari’ e quindi non ufficialmente censiti. Costoro lavorano in nero, duramente sfruttati dai caporali nella raccolta dei pomodori e degli agrumi, vivendo in un villaggio, se pur si può chiamarlo così, fatto di improvvisate baracche e di tende, e certo più miserabile di quelli lasciati in Africa. Qui, nel giugno del 2014, fu ucciso Soumaila Sacko che si stava proponendo come sindacalista di quelli irregolari già allora definiti “invisibili”. Quell’assassinio fu l’occasione dell’emergere di un nuovo leader, decisamente carismatico, fors’anche perché tanto perfettamente inserito nella società italiana da aver conseguito una laurea all’università di Napoli: Aboubakar Soumahoro, nato in Costa d’Avorio, ma da una famiglia relativamente agiata e già da tempo residente in Italia, comprese subito come la difesa degli invivibili non potesse restare isolata : essa andava invece contestualizzata nella più vasta problematica relativa al commercio dei prodotti agricoli. Così egli denunciò il fatto che la grande distribuzione acquistava tali prodotti a prezzi bassissimi, tali da indurre, se non obbligare, i proprietari terrieri a corrispondere ai lavoratori salari da fame, pagati oltretutto a cottimo e su cui i caporali facevano la loro cresta.
Con questa azione, inizialmente condotta proprio in collaborazione con l’amico Soumaila Sacko attraverso l’Unione sindacale di base (Usb), Aboubakar si è perfettamente inserito nel dibattito politico italiano, con il risultato di riaccendere il confronto fra quanti, sempre guidati da Matteo Salvini e da Giorgia Meloni, continuano a predicare la necessità di bloccare gli arrivi e, anzi, di espellere tutti i ‘clandestini’ e insomma quanti non avessero titolo allo status di rifugiato ; e quanti, al contrario, sostengono doveroso non solo accogliere i richiedenti asilo – in forza all’articolo 10 della Costituzione (che peraltro si riferisce soltanto ai rifugiati ‘politici’ poiché, nel 1946 non si poteva avere idea dell’eventualità di migranti economici) – ma anche a procedere alla loro integrazione a cominciare dalla cittadinanza, effettivamente concessa a circa 260.000 immigrati residenti da più di dieci anni. Ma non si è trattato soltanto di una presa di posizione politica, se è vero che oggi sono presenti sul territorio italiano circa 630 associazioni di volontariato che si occupano di immigrazione (e io stesso potrei vantarmi di aver allestito una piccola compagnia teatrale, in collaborazione con il regista Massimo Luconi, nell’intento non tanto di preparare a un ‘mestiere’ una decina di migranti, quanto di dare loro la possibilità di impadronirsi della storia e della cultura europea). Inoltre molti comuni (ad esempio, per mia conoscenza diretta, quelli di Firenze e di Scandicci) hanno organizzato corsi di lingua italiana, dedicati ai giovani migranti, non solo africani, di recente arrivo.
Finora ho preso in considerazione, ed semplificato, prevalentemente la situazione italiana. Ma l’Italia – per quanto abbia dimostrato una certa generosità nell’accoglienza dei migranti (ovviamente con l’eccezione dei momenti in cui Salvini è stato al governo) – fra i paesi dell’Unione Europea occupa soltanto il quarto posto per numero di residenti immigrati ; e questo anche perché l’Italia non ha un grande passato di paese colonialista. Ciò che, probabilmente, le ha anche risparmiato i grandi attentati che si sono verificati soprattutto in Francia, nel Regno Unito, ma anche in Spagna e perfino, come visto in apertura, in Austria, che paese colonialista non è mai stato, come, a dire il vero, neppure la Germania.
Ovviamente, quindi, il problema si poneva all’attenzione dell’Unione Europea, cui spettava di tracciare le linee guida e la cornice in cui dovevano agire i singoli stati membri. C’erano state molte trattative riguardanti la distribuzione dei migranti, che gli stati di Visegrad, e in particolare l’Ungheria, si rifiutavano furiosamente di accogliere. Ma poi, recentissimamente (novembre 2020), è stata pubblicata una Comunicazione della Commissione al Parlamento Europeo, al Consiglio, al Comitato economico Europeo e al Comitato delle Regioni, che si definiva come un Piano d’azione per l’integrazione e l’inclusione 2021-2027. Dove, se per ‘integrazione’ si intende un’operazione di carattere prevalentemente culturale, nel senso (ma anticipo) che gli immigrati dovranno adeguarsi non solo alle leggi, ma anche alle usanze e ai costumi del paese che li ha accolti e dove intendono stabilirsi : la ‘inclusione’ ha risvolti nettamente politici in quanto prevede che essi dovranno, sia pure nel lungo termine, arrivare a godere degli stessi diritti e delle stesse opportunità degli autoctoni. A questo punto la Commissione non poteva non rendersi conto di quanti nativi europei non potessero, di fatto, godere di quei diritti, o anche soltanto dei diritti fondamentali sanciti dalla Dichiarazione universale dei diritti umani, approvata dalle Nazioni Unite e siglata a Parigi il 10 dicembre 1948 : i disabili anzitutto, ma poi anche quanti, o per ragioni di nascita o per sopravvenute disgrazie non a loro imputabili, erano “rimasti indietro”. Talché la Comunicazione ha finito per disegnare il quadro di un’utopica società futura, in cui, superati gli eccessi di un capitalismo ormai prevalentemente finanziario, regnerebbero la libertà l’uguaglianza e la fratellanza. Quali i mezzi per raggiungere un così ambizioso risultato? Giustamente, la Commissione colloca al primo posto l’istruzione e, in particolare le classi miste, dove i figli degli immigrati potranno fare amicizia con i loro coetanei italiani, anche scambiandosi informazioni sul modo di vivere delle rispettive famiglie, mentre gli insegnanti dovranno prepararsi a gestire, anche linguisticamente, le loro diversità – veramente, vista la fine toccata al povero professor Platt, tale lavoro sembra essere non solo tecnicamente difficile, ma anche presentare seri rischi. Tuttavia si fa, e molti insegnanti se ne sono dimostrati all’altezza, sebbene con risultati diversi, anche perché, se pure l’insegnante riesce a incidere sul comportamento dello scolaro, più raramente riesce a farlo nei confronti della famiglia.
Comunque, la citata Comunicazione si apre con una sintetica definizione del concetto di ‘integrazione’ come di un processo, ma di un «processo vantaggioso per tutti…(che) deve essere anche un processo a doppio senso», gestito e realizzato sia dai cittadini dell’Unione Europea sia dai migranti. Veramente, il problema dell’integrazione ha una lunga storia, risalendo almeno agli illuministi, che si erano ben resi conto di quanto disgregata e conflittuale fosse la società in cui vivevano, a causa delle disparità delle condizioni economiche e sociali dei cittadini (o, forse meglio, dei sudditi). Poi ne trattò anche Hegel, oltre che sul piano politico anche in quello puramente speculativo della dialettica. Nel Novecento è tornato sull’argomento un altro filosofo, Norbert Elias ; ma, nel frattempo, l’integrazione è diventato un tema centrale nel riflessioni e nelle analisi dei sociologi, da Émile Durckheim e Vilfredo Pareto a Max Weber e a Talcott Parsons (1937), il quale riteneva che l’integrazione dei gruppi sociali e degli individui fosse condizione necessaria alla sopravvivenza di una società e consistesse nell’interiorizzazione delle norme di comportamento : Parsons, americano, si trovava a considerare una società si può dire da sempre multietnica e multiculturale, mentre per gli europei il problema si pose in tutta la sua drammatica evidenza solo quando cominciarono le grandi migrazioni. Tra i primi ad affrontarlo fu Jürgen Habermas (1981), il quale, senza formulare una vera e propria definizione del concetto di ‘integrazione’, proponeva un modello operativo fondato sul confronto e sul dibattito. Certamente lo studioso che ha trattato il problema in maniera più dettagliata e approfondita è Niklas Luhmann in due corposi saggi (1981, 1984), da cui è tratta anche la citata definizione della Commissione Europea di integrazione come processo a doppio senso, portato avanti dai cittadini europei come dai migranti. Luhmann ha elencato e descritto i diversi campi e le diverse modalità in cui l’integrazione può o deve essere perseguita e realizzata ; muovendo dalla “integrazione sistemica” che si sviluppa attraverso mezzi di comunicazione, denaro, valori e potere politico, si può giungere a una “integrazione sociale” dei singoli gruppi come dei singoli individui, la quale a sua volta presume e/o comporta una certa “integrazione economica” e poi una “integrazione politica” basata sull’acquisizione di uguali diritti, per giungere finalmente a una “integrazione culturale”, che appare la più impervia e, probabilmente, pienamente realizzabile soltanto presso le seconde, se non le terze generazioni.
E’ forse proprio prendendo spunto dall’elenco di Luhmann che Marco Catarci ha recentemente espresso tutto il suo scetticismo sulla possibilità di definire il concetto di ‘integrazione’, in quanto si tratterebbe di un “concetto polisemico”, che comporterebbe i contributi di discipline diverse, quali l’antropologia la pedagogia la psicologia la sociologia e finanche la filosofia. Invece, bisogna pur ricordare che una tale definizione, illuminante se pur non totalmente esaustiva ma anche operativamente agibile, è entrata, in tempi abbastanza precoci, a far parte della legislazione italiana. Ciò è avvenuto con il decreto del presidente della Repubblica (all’epoca Oscar Luigi Scalfaro, presidente del Consiglio Romano Prodi) del 5 agosto 1998, di cui vale la pena di leggere per intero l’art 40: «per integrazione si intende un processo di non discriminazione e di inclusione delle differenze, nel costante e quotidiano tentativo di tenere insieme principi universali e particolarismi, che prevenga situazioni di emarginazione, frammentazione e ghettizzazione che minacciano l’equilibrio e la coesione sociale e affermi principi universali come il valore della vita umana, della dignità della persona, il riconoscimento della libertà femminile, la valorizzazione e la tutela dell’infanzia, sui quali non si possono concedere deroghe, neppure in nome del valore della differenza».
Per capire a che punto sia giunto e quali progressi abbia eventualmente fatto l’auspicato – ma non certo da tutti – processo di integrazione, sarebbe necessario avvalersi di dati statistici disaggregati. Si tratta di dati largamente disponibili, ma di difficile utilizzazione in quanto le diverse etnie e i diversi gruppi sociali possono presentare situazioni anche sensibilmente differenti, ma anche in quanto il numero delle presenze continua a mutare, poiché gli arrivi – dall’Africa come dai Balcani – non si sono arrestati. Pertanto mi ritrovo a dover procedere sulla base di informazioni largamente generiche di origine soprattutto giornalistica.
Come già accennato, l’integrazione più complessa, ma anche più difficile da definire è l’integrazione culturale, peraltro anche decisiva in quanto non si può parlare di integrazione a prescindere da almeno un certo livello di integrazione culturale ; estremamente complessa perché bisogna tener conto non solo delle distanze che separano le diverse etnie e i diversi gruppi di migranti fra di loro e dai nativi, ma anche dell’evolversi delle generazioni, e soprattutto perché il concetto di cultura include tematiche lontane, se pure connesse, dal modo di apparire nel gestire come nell’abbigliarsi alle credenze religiose. L’integrazione culturale è quindi difficile da definire proprio in quanto non è chiaro quali e quanti elementi di quelli che definiscono la ‘cultura’ il migrante debba possedere per potersi definire ‘culturalmente integrato’, soprattutto in una società in cui le differenze sono tante e tali che risulta complicato definire un ‘modello’ ideale – del tipo dello statunitense WASP – cui adeguarsi. Un motivo dirimente potrebbe essere la fede religiosa, ma non lo è, se non altro in forza dell’art. 19 della Costituzione, che recita : «Tutti hanno il diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma». Sta di fatto che, in Italia come nel resto d’Europa, predominano precisamente quelle due religioni che – come abbiamo ampiamente visto – si sono, anche sanguinosamente, confrontate per secoli. L’Islam e soprattutto il cristianesimo sono religioni che, diversamente dall’ebraismo, hanno ampiamente praticato il proselitismo. Ma non saprei dire se e quanti migranti mussulmani si siano convertiti al cattolicesimo, magari per essere considerati culturalmente integrati. Invece, si è fatto un gran parlare della conversione all’Islam di Silvia Romano, la quale, ritornando dalla lunga prigionia passata in compagnia del Corano, ha voluto esibire un abbigliamento islamico, il jilbab, a conferma della sua nuova appartenenza. Mentre mi risulta che molti italiani hanno preferito aderire al buddismo, praticato però in forma strettamente privata. In buona sostanza si può concludere che l’appartenenza religiosa non è un elemento dirimente in ordine alla definizione di ‘integrazione culturale’, che rimane largamente indeterminato e, soprattutto, quasi impossibile da quantificarsi.
Molto diversa la situazione relativa all’integrazione economica : essa consiste nel sensibile aumento del benessere individuale e collettivo di un determinato gruppo di migranti o di una certa etnia, e si realizza, almeno inizialmente, con l’inserimento nel mercato del lavoro, che può anch’esso avvenire in modo individuale o collettivo. Si è già visto come gruppi di rumeni, arrivando in Italia, vi abbiano impiantato piccole e medie imprese edili in grado di dare lavoro a un certo numero di loro connazionali, ma non solo. Qualcosa di simile hanno fatto quegli imprenditori cinesi che hanno aperto manifatture nel distretto tessile di Prato, mettendo in atto una spietata concorrenza nei confronti delle aziende italiane, spesso costrette a chiudere, come racconta Edoardo Nesi nel romanzo Storia della mia gente. La loro capacità di vendere la propria produzione a prezzi imbattibili si fondava (e si fonda) sull’intenso sfruttamento della mano d’opera, composta per lo più di migranti cinesi irregolari e perciò facilmente ricattabili. Tuttavia, la grande maggioranza dei migranti, africani ma anche asiatici, arriva in Italia singolarmente, o in minimi gruppi familiari. Una volta usciti, o più spesso evasi dai centri di prima accoglienza, fatalmente alcuni si lasciano attrarre nella microcriminalità o nello smercio della droga, altri si rassegnano alla mendicità, mentre altri ancora, la maggior parte, si dedica alla ricerca di un lavoro che gli permetta di sopravvivere. Ma quale lavoro? Come noto, l’offerta di lavoro, soprattutto se poco o per nulla qualificato, ha subito, in questi ultimi anni, un drastico ridimensionamento. E’ vero, peraltro, che hanno visto la luce anche alcuni lavori nuovi, ma si tratta di lavori che o richiedono un’alta preparazione, soprattutto in campo informatico e anche una certa base economica ; oppure, al contrario, di lavori che non richiedono alcuna qualifica, e quindi difficilmente riescono a ottenere perfino una protezione sindacale. E’ il caso dei riders, recentemente apparsi e moltiplicatisi delle nostre città a causa dell’emergenza pandemia : tra loro sono numerosi i giovani migranti di più o meno recente arrivo. Già nel 2009, in un bel libro dai toni spesso altamente patetici, Marco Rovelli aveva mostrato quanta parte dell’economia italiana si reggesse sul lavoro dei ‘clandestini’. D’altra parte bisogna anche ricordare come un buon 10% della forza lavoro fosse costituita da immigrati ‘regolari’, occupati nell’industria, ma soprattutto nell’agricoltura negli alberghi e nei ristoranti. Nel momento in cui scrivo, molti alberghi e ristoranti stanno chiudendo, alcuni nella prospettiva di non riaprire più. Ciò comporterà un’ulteriore crisi occupazionale, che colpirà soprattutto i migranti e alla quale Salvini pensa di far fronte bloccando gli sbarchi, che invece continuano, e procedendo a rimpatri forzosi. Mentre invece c’è da ricordare come dopo tutte le guerre ci sia sempre stato un rimbalzo dell’economia, questa volta favorito dalla massa di denaro in arrivo dall’Europa. Bisognerà dunque riflettere su una complessiva ristrutturazione del mercato del lavoro, con le nuove esigenze in campo sanitario, nella green economy, in particolare nella salvaguardia del territorio, dove il ruolo dei migranti potrebbe rivelarsi decisivo.
Un problema che forse non riguarda direttamente l’integrazione, ma che è in grado di condizionarla anche pesantemente è certo il problema abitativo. E’ chiaro che non si dovrà permettere che interi gruppi di migranti continuino a vivere nelle baraccopoli da loro stessi costruite, ma che ricordano anche quelle in tempi non lontani abitate da italiani – nelle borgate romane celebrate da Pier Paolo Pasolini o nel centro di Messina, tuttora esistente. Sembrerebbe ovvio ospitare i migranti nei molti condomìni di proprietà pubblica delle città o dei paesi in cui essi hanno trovato lavoro o lo stanno cercando. In alcuni dei casi in cui questa soluzione è stata tentata (non moltissimi, per la verità) ci si è dovuti scontrare con la resistenza degli altri condòmini, timorosi che il modo di vivere di questi stranieri infettasse la loro normalità – ed è significativo che il condominio in cui essi sono stati accolti senza problemi sia stato quel monstrum architettonico che erano le Vele di Scampia a Napoli, dove i nuovi arrivati si sono presto inseriti nel contesto malavitoso che vi dominava. A dimostrazione di quanto il contesto abitativo possa essere determinante, in senso positivo o negativo, in ordine all’inserimento dei migranti nella comunità nazionale e, alla fin dei conti, alla stessa integrazione. Veramente, un’altra soluzione del problema abitativo, non tanto alternativa quanto parallela alle altre, è stata non solo proposta, ma anche effettivamente realizzata più di dieci anni or sono, Ne ho ampiamente parlato in un altro articolo di questo mio blog, nel post Modello Riace. Ne è stato protagonista l’ex-sindaco di Riace, Mimmo Lucano, che all’epoca fu considerato tra i personaggi più influenti, ma poi colpito dagli strali della giustizia – viene voglia di dire della vendetta – e ora tornato agli onori della cronaca grazie alla pubblicazione del libro in cui racconta il suo nobile tentativo e la sua gloriosa sconfitta. Gloriosa : non per nulla Foscolo ha dedicato il suo verso più bello non già al vincitore, ma allo sconfitto : «E tu onore di pianti, Ettore, avrai».
Questo libro – scritto con Marco Rizzo e intitolato Il fuorilegge. la lunga battaglia di un uomo solo, Feltrinelli 2020 – è qualcosa di più, o di diverso, del semplice racconto dei fatti e degli eventi che, tra il 1998 e il 2019, hanno portato dapprima a fare di Riace un modello esemplare di accoglienza e di integrazione e poi all’incriminazione, alla reclusione e all’esilio di Domenico Lucano. A volte, nonostante l’enorme distanza che separa le 135 pagine di questo libro dalle migliaia di Les misérables, viene fatto di paragonarlo al grande romanzo di Victor Hugo : come Jean Valjean anche il “fuorilegge” ha, oggettivamente, commesso dei reati, ma viene perseguitato piuttosto per le sue opere buone ; come Jean Valjean ha conosciuto momenti di gloria, diventando sindaco del suo paese per poi ricadere nella miseria e nell’oblio ; come Les misérables, anche Il fuorilegge alterna momenti puramente narrativi e ampie pause di riflessione ; infine, come il romanzo di Hugo anche quello di Lucano è popolato da decine, se non centinaia di personaggi, a volte poco più che nominati, ma altre volte accuratamente descritti nelle loro qualità morali e sociali e nel loro agire. Come in ogni buon romanzo di avventure, ci sono i ‘buoni’ e ci sono i ‘cattivi’, i primi identificati in coloro che hanno collaborato al progetto di fare di Riace “il paese dell’accoglienza”, i secondi in coloro che lo hanno anche duramente contrastato. Fra i quali ci sono stati, in primo luogo, i parenti più prossimi, il padre e il figlio, anche ideologicamente schierati sulla sponda opposta a quella in cui si colloca Mimmo, il quale, in conclusione, dichiara di sentirsi appartenere agli ‘ultimi’. Ma è altrettanto significativo che fra i ‘buoni’, cioè fra quanti hanno fattivamente collaborato alla realizzazione del progetto ci siano molti religiosi – in primo luogo monsignor Bregantini, piombato a Riace dal Trentino – e precisamente dalla Val di Non (sì, quella delle mele), quanto di più lontano, geograficamente e socialmente, si possa immaginare dalla Calabria. E proprio questi incontri lo hanno portato a riflettere sulla possibilità che «messaggio evangelico e ideali della sinistra utopica si fondano verso un unico orizzonte». Ed è anche significativo che Lucano, essendo stato iscritto a Rivoluzione Comunista, abbia definito la ‘sua’ sinistra non come rivoluzionaria, ma come “utopica”. Del resto, una delle sue letture preferite era proprio Utopia di Tommaso Moro. Alla lettera “utopia” significa “nessun posto” : un luogo che non c’è, che non esiste. Non è dunque importante definire come ‘fisicamente’ debba apparire : vi si deve piuttosto attuare una «evoluzione antropologica del concetto di comunità», non più fondato su etnie, lingue o dialetti, quanto sulla convivenza, o anche la condivisione, di tradizioni e di mestieri.
E tuttavia non sarà del tutto inutile vedere un po’ più da vicino che razza di paese sia questo Riace, non foss’altro per verificare se e quanti borghi simili esistano in Italia e dove, eventualmente, siano geograficamente collocati. Riace è dunque un paese per così dire doppio in quanto il centro storico è abbarbicato a circa 300 m. di altitudine sul versante occidentale della Sila, mentre, sulle rive di quel mare dove furono recuperati i celebri bronzi, giace Riace Marina fatta di case per le vacanze, tutte moderne e uguali. Al contrario, il centro storico è un intrico di viuzze, assolutamente inadatte al traffico automobilistico, al centro delle quali si apre una piazzetta con la modesta chiesa dell’Assunta e il palazzo comunale. Prima dell’arrivo, nel 1998, dei primi profughi Curdi, la maggioranza delle sue case era vuota, la popolazione essendo emigrata o al nord Italia o in Argentina. Personalmente, conosco molto bene un grosso borgo maremmano, Montichiello, che, in qualcosa, somiglia vagamente a Riace, soprattutto perché la maggioranza dei suoi abitanti hanno lasciato il centro del paese, per costruirsi delle case moderne più in basso e mettere il ‘centro storico’ a disposizione dei turisti, soprattutto quelli che vi venivano ad assistere allo spettacolo recitato dai paesani e, fino a poco tempo fa, diretto da Andrea Cresti (regista geniale e grande quanto sconosciuto pittore). Ebbene, questo paese ha ospitato due, dico 2 migranti. Ma ricordo anche che, attorno al 1960, quando ero soldato a Sacile, e solevo aggirarmi in motocicletta attorno al monte Cavallo, nell’alto Friuli, mi sono imbattuto in diversi villaggi completamente vuoti o abitati da una o due famiglie. Questi villaggi esistono ancora, e sono ancora vuoti : recentemente ho visto in TV che le loro case sono messe in vendita al prezzo simbolico di un euro, nell’ingenuo tentativo di dar loro vita come luoghi di vacanza, per la verità un poco triste e solitaria. E allora, nel citato post, mi sono chiesto, e continuo a chiedermi se, e in che modo, essi non potrebbero essere invece ripopolati dai migranti. Riace è un ‘modello’, come per primo la ha definita monsignor Bregantini, e i modelli vanno ripresi, ma non piattamente imitati.
Certo, Mimmo Lucano era riuscito a risolvere, oltre al problema abitativo, anche quello occupazionale, ma lo aveva fatto, anche recuperando, come accennato, antichi mestieri artigianali, nel ristretto ambito di un paesino dove erano arrivate ad abitare poco più di mille persone. Ma a livello nazionale, e non solo (negli Stati Uniti la disoccupazione pare aver raggiunto cifre impressionanti : si parla di decine di milioni e non si può sapere se Biden saprà dimostrare la genialità di Roosevelt inventando un secondo new deal) la disoccupazione si ripropone in tutta la sua ampiezza e gravità, né riguarda soltanto gli immigrati, i quali peraltro ne restano i più direttamente e gravemente colpiti, anche perché il loro numero continua spietatamente ad aumentare, nonostante l’emergenza Covid. Oggi il lavoro è al centro del dibattito politico e non solo. Forse si comincia a rendersi conto dell’enorme rivolgimento in atto nelle tipologie e nei rapporti di lavoro e del fatto che certe iniziative, necessarie e urgenti, possono essere finanziate soltanto con fondi pubblici. In questo momento pare sia possibile contare sui miliardi dell’Unione Europea, ma in prospettiva sarà pure necessario affrontare il tema del parassitismo del capitalismo finanziario e quindi mettere in campo una nuova fiscalità di livello comunitario – ciò che provocherà forti reazioni. In tale situazione il lavoro è come sospeso fra la tendenza a scomparire, prevista da De Masi almeno nella sua forma organizzata e subordinata, e il suo porsi come diritto, che, per i migranti, è il diritto dei diritti poiché senza lavoro essi non possono sperare di essere accolti come cittadini e, tanto meno, di raggiungere una compiuta integrazione.
Il reddito di cittadinanza, un po’ ingenuamente subordinato alla “ricerca di un lavoro”, di fatto riconosce che una certa quota di cittadini potrà vivere solo in quanto finanziata dallo stato. Il punto sta nella definizione del concetto di ‘cittadino’ : ricordiamo che la Francia rivoluzionaria considerava ‘citoyens’ tutti coloro che – da qualunque luogo provenissero e qualunque lingua parlassero – aderivano ai valori della République ; ma ora, per la legge italiana, esso viene legato al tempo di permanenza in Italia, che dovrebbe essere di almeno dieci anni, ma richiedendo anche a costoro la presentazione di documenti sulla condizione economica delle loro famiglie, rilasciati dalle autorità dei paesi di origine (e quindi, il più delle volte, quasi impossibili da ottenersi). Il rimanente dei migranti, e in particolare i nuovi arrivati, restano affidati alla buona volontà di organizzazioni private, che, in verità, compiono spesso un lavoro egregio, anche se talvolta si trasformano in centri di sfruttamento, per non dire di rapina. Nel frattempo continuano i salvataggi in mare. Ora, di fronte a queste persone, che sacrificano il loro tempo e il loro denaro, e spesso la loro stessa vita, come d’altra parte fanno tanti infermieri e tanti medici che si prodigano per curare i malati della pandemia, dovremmo ripetere, senza bisogno di riferirci a Ulisse, il celebre verso di Orazio : Nos numerus sumus et fruges consumere nati.