L’inaugurazione era attesa a Roma per il 4 aprile 2020, ma la situazione di lockdown che a causa del Covid-19 l’Italia – e non solo il nostro Bel Paese – stava vivendo in quei mesi, aveva fatto differire al 14 ottobre l’apertura della mostra I Marmi Torlonia. Collezionare capolavori, che era stata allestita nei nuovi spazi espositivi di Villa Caffarelli, nel complesso dei Musei Capitolini e che avrebbe chiuso i battenti il 29 giugno 2021, un giorno importante per Roma perché è dedicato ai patroni della città, i Santi Pietro e Paolo. Fin dai primi giorni la mostra si era dimostrata un successo, esercitando un forte appeal su quanti si interessano di arte e di storia, come operatori economici del settore, accademici o semplici appassionati. Peraltro – dato l’aggravarsi della pandemia che sta sconvolgendo il mondo intero – in Italia, nel frattempo, si è dovuto studiare il modo di adottare, a più riprese e differenziandole talora regione per regione (più che altro nei settori alimentari e della ristorazione), nuove misure, anche estreme, di contenimento del virus, soprattutto in vista delle festività natalizie e di fine anno; fra tali misure – purtroppo per la cultura – con un ennesimo DPCM è stata decisa la totale chiusura di musei e mostre a partire dal 6 novembre a livello nazionale (quindi per tutte le regioni, “rosse, arancioni o gialle” che siano) senza escludere la possibilità di ulteriori misure contenitive del virus più severe, da adottarsi con un nuovo e temuto (certo non auspicabile) decreto: è quindi chiaro che, in ogni caso, dovranno essere di nuovo modificate le date di riapertura e conseguente chiusura in tutta Italia delle varie mostre, come quella sui Marmi Torlonia la cui esposizione – dal momento in cui verrà finalmente riaperta – dovrebbe essere prolungata per lo meno per tutto il periodo estate-autunno 2021, per poter ovviare alle “clausure culturali” cui ci sta obbligando questa mefitica pandemia. Peraltro, proprio nel mese di dicembre è stata studiata la possibilità di una visita virtuale della mostra da parte del grande pubblico, collegandosi opportunamente sul sito web del Comune di Roma.
La mostra sui Marmi Torlonia e l’elegante e istruttivo catalogo sono stati curati dal famoso Salvatore Settis – già direttore della prestigiosa Scuola Normale Superiore di Pisa – coadiuvato dall’altrettanto insigne archeologo Carlo Gasparri. Fin dai primordi l’organizzazione della mostra – una vera fatica di Ercole! – non era stata agevole, poiché si trattava di selezionare (per una ovvia e inevitabile ristrettezza degli spazi espositivi) “soltanto” 92 tra le 620 sculture antiche della Collezione Torlonia che, come ebbe a dire l’autorevole e indimenticato Federico Zeri, è (e tale ancora rimane) “la più importante collezione privata di scultura antica esistente al mondo”, oltre ad essere (detto nel consueto stile enfatico ed appassionato, nonché ridondante di sostantivi, tipico del grande Zeri) “significativa per la storia dell’arte, degli scavi, del restauro, del gusto, della museografia, degli studi archeologici”.
Per i fortunati che hanno potuto visitarla nel breve periodo in cui è rimasta aperta, la mostra si è presentata come una descrizione dello sviluppo e l’affermarsi a Roma – negli ultimi secoli – del collezionismo di marmi greco-romani. In maniera abbastanza innovativa, gli organizzatori l’hanno articolata in cinque sezioni che, curiosamente ma efficacemente, si sviluppano in senso cronologico inverso. Infatti, diversamente da come ci si potrebbe aspettare, la prima sezione è quella a noi più vicina nel tempo e descrive il Museo Torlonia che, fondato nel 1875 dal ricchissimo banchiere e principe romano Alessandro Torlonia, rimase aperto fino agli anni Quaranta del secolo successivo. Nella seconda sezione – sempre progredendo indietro nel tempo – sono illustrate le vicende collezionistiche che nell’Ottocento conferirono alla famiglia Torlonia un tocco di distinzione nell’ambito della nobiltà papalina romana: infatti i Torlonia, una volta arricchitisi enormemente grazie a lucrose attività bancarie (che permisero loro di arrivare a conseguire anche il titolo di principi), decisero di dare vita ad una collezione di marmi antichi che aumentasse il loro prestigio, implementandola in parte con i rinvenimenti di opere d’arte avvenuti durante campagne di scavo condotte nelle loro vaste proprietà nel Lazio, in parte acquistandole da altre famiglie nobili romane che versavano in precarie condizioni finanziarie [G.Fazzini, Le Colonne di Roma. Storia e leggende, Milano 2016, pp. 127-132].
La terza sezione illustra “le forme in cui si svolgeva il collezionismo di antichità” a Roma prima che vi si stabilissero i Torlonia, per cui l’esposizione verte sulle opere d’arte appartenute allo scultore e restauratore Bartolomeo Cavaceppi [S.A.Meyer-C.Piva, L’arte di ben restaurare. La raccolta d’antiche statue (1768-1772) di Bartolomeo Cavaceppi, Firenze 2011] e, soprattutto, sulle sculture che nel Settecento componevano la collezione di antichità del cardinale e grande appassionato Alessandro Albani, conservata nella villa che si era fatto costruire sulla Via Salaria nelle immediate prossimità delle Mura Aureliane e che sarebbe stata acquistata dai Torlonia nel 1866 [G.Fazzini, Le Colonne di Roma…, op. cit., pp. 240-241]. Nella quarta sezione spiccano i marmi appartenuti al marchese Vincenzo Giustiniani (1564-1637) che – sofisticato mecenate – si distinse tra i collezionisti d’arte vissuti a Roma a cavallo tra Cinquecento e Seicento [L.Poggi, Un viaggiatore aristocratico del ‘600. Il marchese Vincenzo Giustiniani, Firenze 2007]. La mostra, nella quinta sezione, espone pezzi vari, provenienti dalle collezioni d’arte di nobili famiglie romane del Quattrocento e Cinquecento, per terminare con un superbo affaccio sulla grande aula esedra vetrata del capitolino Palazzo dei Conservatori nella quale, al centro della platea posta una decina di metri più in basso, fa bella mostra di sé l’originale della statua equestre di Marco Aurelio, di cui dal 19 aprile 1997 è visibile una copia non eccelsa nella Piazza del Campidoglio, nel punto esatto in cui l’originale vi venne trasferito nel 1538 dal Laterano, per volere di papa Paolo III Farnese: la statua e la piazza sono oggi riprodotte sulla moneta italiana del valore di cinquanta centesimi di Euro. Questo monumento ha una posizione importantissima nella storia dell’arte, per il fatto di essere l’unica statua equestre di epoca romana a noi pervenuta integra: essa si salvò dall’abbattimento e distruzione di cui, in un momento di furore demolitore (indirizzato anche al recupero di metalli), furono vittime le statue della Roma pagana, poiché si riteneva (a torto, ma fortunatamente) che il guerriero a cavallo fosse l’imperatore cristiano Costantino (infatti il gruppo equestre in tardo-latino era chiamato Caballus Constantini), morto nel 337, e non lo stoico imperatore filosofo e mite verso i Cristiani – ma pagano! – Marco Aurelio, morto nel 180 [G.Fazzini-C.Lucarelli, Costantino. L’Imperatore “visionario”, Milano 2016, pp. 183-188].
Il motivo di interesse e punto di forza di questa mostra è che vengono finalmente presentate agli occhi del pubblico le opere d’arte della Collezione Torlonia che erano esposte in Via della Lungara [collezione che non va confusa in alcun modo con le raccolte – di altro genere – degli odierni Musei di Villa Torlonia sulla Via Nomentana] che non erano più visibili da decenni: nell’occasione della complessa organizzazione di questa mostra, negli ambienti culturali della Capitale e del MIBACT (MInistero per i Beni e le Attività Culturali e per il Turismo) si è parlato nuovamente – come si è fatto per anni, ma stavolta (sembrerebbe) in maniera più convinta – di ricostituire un rinnovato Museo Torlonia in una sede espositiva romana permanente: tuttavia, a tale riguardo occorre – ahinoi – essere come San Tommaso, perché finché non lo vediamo realizzato stentiamo a crederci, anche se auspichiamo, per il bene di Roma e della cultura tutta, che “questo museo s’ha da fare” (citando, volutamente al contrario, i bravi di manzoniana memoria che, osteggiando il matrimonio tra Renzo e Lucia, intimorirono Don Abbondio).