Si può provare a partire da un libro di una ventina d’anni fa dello scrittore francese Pascal Bruckner; libro che già dal titolo dice molto dell’essenziale: La mélancolie démocratique. Bruckner pone una domanda cruciale: il “nostro” modello, con il suo catalogo di valori, sembrano universalmente riconosciuti: diritto alla vita, alla salute… Al tempo stesso ci si divide ancora – e nei regimi democratici, non nelle dittature – tra favorevoli e contrari alla pena di morte; tra sostenitori del diritto della donna a interrompere la gravidanza, e chi questo diritto lo nega. Col paradosso che chi, in nome della sacralità della vita è contrario all’aborto, spesso è favorevole all’esecuzione capitale…
Ancora: senza generalizzare, beninteso: come mai, salvo improvvise infiammate, tanti sembrano aver smarrito il gusto, e la stessa “energia” della critica? Insomma: seduti; come prostrati, svuotati, indifferenti. E’ sempre stato così? Oggi il fenomeno si è acuito? E come recuperare la “tensione”, smarrita?
Un “qualcosa”, oltretutto, di altalenante e carsico. Ci si mobilita contro gli abusi e le violenze della polizia americana contro le persone di colore; si abbattono le statue ritenute a torto o a ragione simboli di un passato di cui si prova repugnanza e vergogna; al tempo stesso si assiste inerti al massacro di libertà e diritto da parte del regime comunista di Pechino a Hong Kong; immobili di fronte alle repressioni che si consumano ad Ankara e a Istanbul; non ci si scuote più di tanto per i massacri in Siria, per le vittime dei regimi che opprimono mezza Africa, per le sorti di centinaia di profughi che incalzati da guerre, fame, malattie, lasciano le terre e cercano un’opportunità di sopravvivenza. Sono decine le minoranze e le etnie perseguitate da sempre, in Asia e Africa, America del Sud; non fanno “notizia”, non commuovono, non indignano.
Nella regione autonoma cinese dello Xinjiang, secondo la denuncia di Reinhard Buetikofer ed Evelyne Gebhardt, presidente e primo vice-presidente della delegazione del Parlamento Europeo per le relazioni con la repubblica popolare cinese, si consuma un “genocidio” nei confronti della comunità uigura: “Siamo profondamente scioccati dalle ultime rivelazioni sulla massiccia campagna del Partito Comunista Cinese per schiacciare il tasso di natalità degli uiguri nello Xinjiang”, dicono Buetikofer e Gebhardt. “Le notizie sulla sterilizzazione forzata e sugli aborti, come pure sulle severe sanzioni che vengono inflitte per le violazioni alle norme sul controllo delle nascite, sono di un’atrocità senza precedenti e corroborano ulteriormente la valutazione che potremmo essere di fronte all’attuazione di un genocidio”.
L’etnia Uigura viene internata massicciamente in campi di rieducazione politica nello Xinjiang. L’ “Associated Press” e Adrian Zenz, ricercatore della “Victims of Communism Memorial Foundation” documentano che la repressione cinese degli uiguri comincia nel 2017: nei campi di rieducazione sono stati internati prima i capifamiglia accusati di aver avuto troppi figli: spesso condannati a un anno di prigionia per ogni figlio. Un fruttivendolo, Abdushukur Umar, sette figli, sette anni di prigione. Le donne uigure incinte sono state costrette ad abortire e/o sterilizzate forzosamente. A parte gli aborti obbligatori, i metodi sono iniezioni sterilizzanti, inserimento forzato della spirale, sterilizzazione chirurgica.
Cosa deve ancora combinare la Cina di Xi? A proposito della pandemia Covid-19 Pechino è stata reticente, omertosa; si è comportata come Mosca ai tempi del disastro di Chenobyl. Al suo interno, non solo in Tibet, repressioni e persecuzioni di massa; la repressione a Hong Kong; la “silenziosa”, ma implacabile penetrazione cinese in Africa e Sud America… Xi è un dittatore, ma continua a essere percepito come un partner economico affidabile, sostenuto da lobby intellettuali influenti. Sempre più le nostre infrastrutture dipendono dalla tecnologia cinese, questo comporta seri e concreti rischi di ricatti e condizionamenti. Non è un ipotetico futuro; è qualcosa dell’oggi, del presente.

Vengono al pettine “nodi” di un processo avviato decenni fa: i rapporti economici avviati sul finire del secolo sono stati accolti un po’ da tutti come una grande opportunità di profitto. C’era a disposizione (c’è ancora) una immensa forza-lavoro: Pechino ha costruito la sua fortuna su costi irrisori del lavoro; per una quantità di imprese occidentali andava bene: nessun problema per quel che riguarda le rivendicazioni; guadagni facili, rapidi… Così, inevitabilmente, si è esportato un prezioso know how tecnico e produttivo; Pechino ne ha logicamente approfittato. Una variante della famosa sentenza di Lenin: “I capitalisti ci venderanno la corda con cui impiccarli”.
Ora, con la crisi della pandemia, molte aziende stanno ri-localizzandosi; non sembra più conveniente, e anche dal punto di vista della qualità, il prodotto lascia a desiderare. Ma è un chiudere la stalla dopo che i cavalli sono fuggiti. Il know how acquisito, resterà dov’è.
Cina a parte. Ibrahim Gokcek, dice nulla questo nome? Alla fine di aprile di quest’anno, Ibrahim scrive una lettera: «Sono sul palco, con la cinghia del basso attaccata al collo, quella con le stelle che mi piace di più. Di fronte a me, centinaia di migliaia di persone, con i pugni alzati, cantano “Bella ciao”. La mia mano batte le corde del basso come fosse il migliore del mondo… Mi chiamo Ibrahim Gokcek. Per 15 anni ho suonato il basso nel Grup Yorum».
In quella lettera Ibrahim scrive la sua storia, quella della sua band e della Turchia schiacciata dal tallone del presidente-sultano Recep Tayyp Erdogan. Dopo 323 giorni di sciopero della fame, Ibrahim muore. Un mese prima si era spenta Helin Bolek, ha resistito 288 giorni; il 24 aprile è toccato a Mustafa Kocak, 297 giorni. Digiuni disperati, tre ragazzi di neppure trent’anni che si lasciano morire (e sono lasciati morire); contro di loro l’accusa, peraltro mai provata, di terrorismo.

Nella citata lettera, Ibrahim scrive: “Il motivo per cui siamo stati inseriti in questo “elenco terroristico” è il seguente: nelle nostre canzoni parliamo di minatori costretti a lavorare sotto terra, di lavoratori assassinati da incidenti sul lavoro, di rivoluzionari uccisi sotto tortura, di abitanti dei villaggi il cui ambiente viene distrutto”.
Vogliamo trovare una data, per l’inizio delle persecuzioni in Turchia? Fissiamola al 2016, l’anno del tentato golpe contro Erdogan: un “golpe” su cui è lecito avanzate più di un dubbio, e che forse sarebbe meglio definire un “auto-golpe” per giustificare quello che effettivamente è accaduto: decine di migliaia di turchi, licenziati, perseguitati, arrestati. Giornalisti, scrittori, deputati, accademici, accusati senza prove di essere “nemici dello Stato”; e tra loro anche Ibrahim, Helin, Mustafa, e altri musicisti della band: sulla loro testa una taglia da 42mila dollari. Due riescono a fuggire in Francia, ottengono l’asilo. Gli altri… Non c’è una strada, una piazza, una targa, nulla che ricordi il loro sacrificio. Non esistono, ed è come non siano mai esistiti.
Racconta il giornalista e analista turco Murat Cinar: “Dal 2016 sono iniziati processi assurdi. Kocak condannato all’ergastolo aggravato con una testimonianza anonima, il giudice ha addirittura detto di aver preso la decisione sulla base della propria coscienza. Processi come quelli ai giornalisti di “Cumhuriyet”, accusati sulla base di chiamate perse sui loro telefoni di cittadini poi inquisiti per il golpe. Le accuse sono diventate estreme, una messinscena giudiziaria sulla base di testimonianze anonime o prove costruite dopo gli arresti”. Conclusione: “La Turchia non ha uno stato di diritto”.
C’è una costante, una “coerenza” nella Turchia post 2016: ogni possibile voce contraria, anche solo potenzialmente, a Erdogan viene perseguitata. Anche parlamentari come Enis Berberoglu, del Partito repubblicano popolare (Chp), Leyla Guven e Musa Farisogullari del Partito di sinistra filo-curdo Hdp. Gli si revoca senza tanti complimenti l’immunità parlamentare; così Guven e Farisogullari sono formalmente accusati di “spionaggio e terrorismo” per appartenenza all’Unione delle comunità del Kurdistan (Kck) dove domina il Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk). Condannati a sei e nove anni di carcere. Berberoglu è stata comminata a nove anni per rivelazione di segreti governativi.
Le politiche liberticide del “sultano” Erdogan hanno fatto sì che oltre 150mila dipendenti pubblici siano stati licenziati; quasi centomila persone sono finire in carcere. Il consenso è in caduta libera: secondo un sondaggio dell’istituto turco “Avrasya”, solo il 30 per cento dell’opinione pubblica turca approva l’operato di Erdogan, che però non demorde. Dopo aver messo il bavaglio a stampa e televisioni, dopo aver legato le mani alla magistratura è la volta delle amministrazioni locali: almeno ventun sindaci curdi, eletti nel marzo del 2019 restano dietro le sbarre; altri cinque in custodia. Ankara ha nominato finora amministratori governativi fiduciari in 45 municipalità dalle elezioni locali dello scorso anno accusando i sindaci di legami col Pkk. Il Consiglio per la radio e la televisione della Turchia (Rtuk), controllato da membri della coalizione di governo, ha sanzionato 2 canali televisivi di opposizione, “Halk Tv” e “Tele 1”, sospendendone per cinque giorni il diritto alle trasmissioni per presunte offese alle autorità turche e alla figura storica del sultano ottomano Abdul Hamid II.
Secondo le opposizioni e ONG locali e internazionali, i media filogovernativi coprono circa il 90 per cento del panorama informativo ufficiale. Nella graduatoria 2020 sulla libertà di stampa di Reporters sans Frontières, la Turchia occupa il 154esimo posto su 180 Paesi.
Tra i tanti episodi che confermano il funzionamento a pieno regime della macchina repressiva, la requisitoria pronunciata da un procuratore di Istanbul con la richiesta di una condanna all’ergastolo per sedici persone, tra cui Osman Kavala, imprenditore turco di 61 anni nato in Francia e personalità di primo piano della società civile turca. Kavala è detenuto in isolamento da quasi cinquecento giorni. Il suo arresto risale all’ottobre del 2017. Un arresto che aveva sorpreso molti osservatori: Kavala ha dedicato la vita al dialogo tra le comunità in Turchia, e tra la Turchia e l’Europa; lontanissimo dunque dall’accusa mossagli: “tentato rovesciamento del governo”.
Erdogan ne fa un capro espiatorio: lo ritiene tra i responsabili delle rivolte di piazza Taksim del 2013: la più vasta sfida al potere di Erdoğan da parte di una “generazione nutrita dalla cultura individualista occidentale”, dice Ariane Bonzon, giornalista autrice di Turquie, l’heure de vérité. Nel mirino di Erdoğan la società civile liberale, culturalmente vicina all’Europa: qualsiasi finanziamento ad associazioni o iniziative culturali proveniente dall’estero è ostacolato, mentre il governo esalta lo splendido isolamento della Turchia, avvolta nel suo glorioso passato ottomano.
Ecco dunque che tra silenzi imbarazzati (ma neppure tanto, a ben vedere), e sostanziale indifferenza, biechi interessi, ipocrisie e tutela di affari di ogni tipo possono farla da padrone.

In ballo “affari” lucrosissimi. Per dire: le gare per due appalti gigantesci, il canale di 45 chilometri tra Mar Nero e Mar di Marmara; il terzo tunnel sotto il Bosforo. Mega progetti, e si può ben parlare di “Oro della Turchia”, mutuando l’azzeccato titolo del libro di Giovanna Loccatelli (Rosenberg & Sellier), illuminante, da questo punto di vista.
Ora nel mirino del regime del “sultano”, gli avvocati. Il partito di Erdogan ha presentato al Parlamento di Ankara un progetto di legge di riforma degli ordini degli avvocati, contestato dai legali, che lo ritengono un tentativo di limitarne l’indipendenza.
Di questa lenta, progressiva, all’apparenza inesorabile involuzione della Turchia, che giorno dopo giorno assume i connotati del regime autoritario e brutalmente violento, poco si parla, ancor meno si sa. Sono cose che annoiano, che non sono interessanti? Eppure la Turchia è un paese membro della NATO; nello scacchiere mediterraneo gioca un ruolo di primo piano, e lo vediamo in Libia… Ma certo, come dice il proverbio: occhio non vede, cuore non duole. E l’Italia è specialista nello scansare questo tipo di dolori.
Il 19 giugno 2020 le agenzie di stampa hanno diffuso il seguente comunicato:
“La Turchia è pronta a collaborare con l’Italia sulle questioni energetiche. Lo ha dichiarato il ministro degli Esteri turco Mevlut Cavusoglu nel corso di una conferenza stampa congiunta con l’omologo italiano Luigi Di Maio al termine di un incontro ad Ankara. «Riguardo all’energia e ad attività relative vogliamo lavorare seriamente con l’Italia nel Mediterraneo orientale. Abbiamo la Turkish Petroleum e l’italiana Eni e altre aziende. Ci sarà anche collaborazione tra i nostri ministeri dell’Energia», ha aggiunto Cavusoglu. «Le ricchezze del Mediterraneo orientale devono essere condivise da tutti i Paesi della regione», ha proseguito, affermando che Ankara «respinge le azioni unilaterali che tengono la Turchia fuori da questo processo». «Nei prossimi giorni avrò interlocuzioni con il governo ma anche con altri parti libiche per cercare di trasmettere tutta l’apprensione non solo dell’Italia, non solo dell’Europa, ma di tutta la comunità internazionale». Lo ha detto il ministro degli Esteri Luigi Di Maio nella conferenza stampa ad Ankara con l’omologo turco Mevlut Cavusoglu, secondo cui «i prossimi passi saranno quelli di incoraggiare le parti a raggiungere il cessate il fuoco e ad avviare il dialogo politico».
Ecco: togliamo i nomi, e si ha, parola più parola meno, lo stesso “cordiale” e “proficuo” tono degli incontri con l’Egitto di Abdel Fattah al-Sisi, la Russia di Vladimir Putin, la Cina di Xi Jinping…
A Max Weber, uno dei padri fondatori dello studio moderno della sociologia, si deve la fondamentale distinzione “etica della convinzione” (prosaicamente: i valori); e l’etica della responsabilità (sempre prosaicamente: le implicazioni e le conseguenze di un’ azione, che dovrebbero costituire l’essenza delle “preoccupazioni” di un politico). Una qualsiasi azione può essere giudicata e “pesata” a seconda delle due “etiche”, difficilissima, precaria, instabile, la coesistenza; spesso inevitabile, il conflitto.
Nicolò Machiavelli riprendendo la frase di Cosimo I de’ Medici ha sintetizzato mirabilmente: “Gli Stati non si governano con i Pater Noster”.
Così va il mondo: dal tempo di Tacito, che nei sui “Annali“ racconta le storie degli imperatori romani, a Henry Kissinger, la cui realpolitik in questi giorni viene rivalutata anche da studiosi progressisti. Alla fine: è sempre il solito “Follow the money”. Non è bello. Non giustifica; ma spiega tanto.