È stato un anno infausto per i giornalisti nel mondo, un anno in cui gli operatori dell’informazione, dall’Arabia Saudita all’Afghanistan, fino agli Stati Uniti, sono stati obiettivi di rappresaglie, anche terminate nel sangue, per il loro lavoro. Rispetto agli ultimi 3 anni, il 2018 ha battuto il record di giornalisti uccisi per motivi correlati alla propria professione, mentre, per contro, il numero di quelli rimasti uccisi nei conflitti è precipitato al suo livello più basso dal 2011. Sono questi i dati che emergono dal report appena uscito di CPJ (Committee to Protect Journalists), firmato da Elana Beiser.
Tra il primo gennaio e il 14 dicembre 2018, CPJ conta 53 membri della stampa uccisi nel mondo, e in 34 casi l’omicidio è stato premeditato. La commissione distingue tre tipologie di uccisione: quella che avviene come vendetta o rappresaglia, quella in situazioni di conflitto (11 nel 2018) e quella che capita in circostanze di lavoro pericolose, come in caso di copertura di proteste e manifestazioni che diventano violente (8 nel 2018).
Le 53 morti avvenute nell’anno che sta per finire – seguono le 47 dell’anno precedente, di cui 18 erano stati omicidi premeditati. Ma alle uccisioni (secondo CPJ 251) si devono aggiungere le incarcerazioni, sintomo di una profonda e drammatica crisi della libertà di stampa nel mondo. Tra le cause di questo bilancio, l’organizzazione cita le grandi rivoluzioni tecnologiche di questi anni, che hanno consentito a più persone di esercitare la professione, rendendo però i giornalisti sempre più sacrificabili dal potere politico e criminale, che una volta dipendevano proprio da loro per diffondere il proprio messaggio. Non solo: CPJ evidenzia anche una sostanziale mancanza di leadership politica e morale disposta a spendersi per i diritti e la sicurezza dei giornalisti.
L’esempio più eloquente è naturalmente l’uccisione di Jamal Khashoggi, voce critica del principe ereditario Mohammed bin Salman, avvenuta nel consolato saudita di Istanbul ad opera di agenti sauditi. Chi ha condannato con più vigore l’accaduto è stato Tayyp Recep Erdogan, il cui governo, paradossalmente, può considerarsi fortemente illiberale nei confronti dei media indipendenti, visto che sta incarcerando un considerevole numero di giornalisti e operatori dei media.
Dove si è collocata la Casa Bianca di Donald Trump in questo scenario? Come chi segue La Voce di New York saprà, non certo in una posizione di autorevole difesa della libertà di stampa. Perché, come anche CPJ mette in luce, l’amministrazione Trump è stata sostanzialmente ambigua nell’assegnare le responsabilità dell’omicidio, che, secondo un rapporto della CIA, ricadrebbero proprio sul principe ereditario saudita. Trump e il suo staff sono stati altresì chiari nel dire che l’Arabia Saudita sarebbe in ogni caso rimasta un partner strategico fondamentale per gli Stati Uniti. Ci è voluto un voto per certi versi storico da parte del Senato USA, che su questo giornale vi abbiamo raccontato tempestivamente, per esprimere una posizione più risoluta di condanna nei confronti di Mohammed bin Salman.
Ed è proprio sugli Stati Uniti la parte forse più sconcertante del report CPJ, che ricorda come, lo scorso 28 giugno, nel Maryland si sia consumato il più letale attacco ai media nella storia recente a stelle e strisce. Il riferimento, naturalmente, è alla strage nella redazione del Capitale Gazette (Annapolis), quando un uomo armato è entrato nell’edificio e ha aperto il fuoco contro 4 giornalisti e un addetto alle vendite. Il killer, Jarrod Ramos, aveva ripetutamente minacciato il giornale dopo il fallimento di una causa da lui intentata nel 2012. Un episodio che il presidente Trump aveva condannato, affermando che “i giornalisti, come tutti gli americani, dovrebbero vivere liberi dalla paura di poter essere brutalmente e violentemente attaccati durante il proprio lavoro”, salvo poi, pochi giorni dopo, tornare ad attaccare la stampa nelle modalità che gli sono più congeniali, definendo i giornalisti “nemici del popolo”.
L’Unione Europea, in questo senso, non se la passa meglio. Ján Kuciak, reporter investigativo di 27 anni, è stato ucciso in Slovacchia insieme alla sua fidanzata mentre indagava a proposito della corruzione che attanaglia il Paese. Il caso di Ján era stato preceduto di qualche mese dalla vicenda della giornalista maltese Daphne Caruana Galizia, uccisa da una bomba nascosta nella sua macchina nell’ottobre 2017. Un’altra giornalista europea, Viktoria Marinova, è stata stuprata, picchiata e strangolata a morte nella sua Bulgaria il 6 ottobre di quest’anno. Il governo ha dichiarato l’omicidio non correlato alla sua professione, ma CPJ sta ancora indagando sulle cause della morte. Quel che è peggio, è che i casi di Kuciak e Caruana Galizia sono rimasti ufficialmente irrisolti, un’impunità che, secondo CPJ, per forza di cose finisce per perpetuare, e non bloccare, le violenze sulla categoria.
Altro record negativo lo ha raggiunto l’Afghanistan, il Paese più letale in assoluto nel 2018 per i giornalisti e dove il tasso di impunità per le loro morti rimane altissimo. I 13 giornalisti uccisi quest’anno restano il record assoluto da quando CPJ monitora lo Stato, dato peggiore anche del 2001 quando gli Stati Uniti cominciarono a bombardarlo e 9 operatori dell’informazione furono uccisi. Anche gli estremisti islamici sono responsabili della morte di membri della stampa. Il 30 aprile, un doppio attacco suicido rivendicato dal sedicente Stato islamico ha ucciso 9 giornalisti. In quel caso, peraltro, l’attentatore si è finto a sua volta un reporter e si è fatto esplodere in mezzo a un gruppo di operatori dei media accorsi sul luogo della prima esplosione.
Al report di CPJ si aggiunge quello, appena uscito, di Reporters Without Borders, che conferma – se non aggrava – il quadro. L’organizzazione, infatti, conta in tutto 80 operatori dell’informazione uccisi in connessione con il loro lavoro (con un aumento dell’8% rispetto all’anno precedente), e 63 i giornalisti professionisti che hanno perso la vita per lo stesso motivo (con un aumento del 15% rispetto dal 2017). 348, invece, il numero di giornalisti detenuti in giro per il mondo secondo l’organizzazione, due in più rispetto all’anno precedente. Come per il 2017, più della metà dei reporter imprigionati si trovano in Cina (che resta in testa alla classifica con 60 detenuti), Iran, Arabia Saudita, Egitto e Turchia. 60 anche i giornalisti tenuti in ostaggio, con una crescita dell’11% rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso, soprattutto nei Paesi mediorientali di Siria, Iraq, Yemen. Nonostante la battuta di arresto dello Stato Islamico, poco si sa della sorte di questi ostaggi, fatta eccezione per il reporter giapponese Jumpei Yasuda, liberato dopo 3 mesi di rapimento in Siria. Un giornalista ucraino è ancora detenuto nell’autoproclamata Repubblica Popolare di Doneck dalle autorità, che lo accusano di spionaggio.