Il 28 ottobre una jeep attraversa piazza Tian’anmen a Pechino, va a schiantarsi contro un’inferriata ed esplode, proprio sotto il ritratto del “grande timoniere” Mao Zedong. I tre a bordo del veicolo e due turisti muoiono nell’esplosione. Trentotto i feriti. Non ci vuole molto perché la polizia parli di un attacco terroristico operato da alcuni “probabili sospetti” provenienti dalla Regione Autonoma Uigura dello Xinjiang, una provincia dell’estremo ovest della Cina, chiamata anche “Turkestan” dai suoi abitanti di lingua turca e religione musulmana, gli uiguri.
Quasi un mese dopo, ecco un video in uiguro del Partito Islamico del Turkestan (PIT), che, secondo il gruppo di monitoraggio del terrorismo islamico SITE, definisce l’azione un’ “operazione di jihad” e minaccia ulteriori attacchi contro Pechino. Il video sarebbe una palese rivendicazione da parte del PIT secondo le autorità cinesi, che fino a quel momento avevano attribuito l’azione al Movimento Islamico del Turkestan Orientale (MITO), un gruppo in passato attivo nello Xinjiang. Delle affermazioni che il gruppo di diaspora uigura basato negli Stati Uniti World Uyghur Congress (WUC) definisce infondate. Secondo il WUC, il video sarebbe solo un commento sull’attacco e non una rivendicazione, cosa che chiunque con delle conoscenze anche di base di lingua uigura sarebbe in grado di capire.
Nello Xinjiang, così lontano dai palazzi governativi di Pechino, le rivendicazioni di autonomia non sono cosa nuova. In gran parte ancora non cartografato alla fine del 19esimo secolo, lo Xinjiang è una regione montagnosa con al centro l’immenso deserto del Taklamakan, il cui nome significa “se ci entri, non esci più”. Entra stabilmente a far parte della Cina nel 1949 e nel 1955 diventa una regione amministrativa autonoma. Ma nel frattempo lo Xinjiang ha vissuto una storia locale in certo modo distaccata dallo stato cinese e legata alla tradizione centro-asiatica e turco-mongola piuttosto che alla cultura dei cinesi han, etnia maggioritaria in Cina. Secondo Rémi Castets, sinologo ed esperto dello Xinjiang all’istituto di scienze politiche Sciences-Po di Bordeaux, “a causa del loro passato storico, gli uiguri si sentono una nazione allo stesso titolo della nazione cinese.”

Xinjiang
Ma come questo sentimento si traduca in movimenti separatisti non è chiaro. Da anni si parla di terrorismo uiguro; il MITO è stato anche riconosciuto come gruppo terroristico dall’ONU e dagli Stati Uniti nel 2002. Non tutti però sono d’accordo sulla loro reale natura e capacità d’azione.
Secondo la polizia, a bordo della jeep esplosa a piazza Tian’anmen c’era un uomo sulla trentina con la moglie e la madre. Stando ad alcune fonti, un loro parente avrebbe perso la vita durante gli scontri tra uiguri e cinesi han nella città di Urumqi nel 2009, che fecero quasi 200 morti. Se le cose sono andate veramente così, dice Castets, si potrebbe parlare in questo caso di “una vendetta un po' disperata, una ritorsione. Il problema è che una parte di questa società ha la sensazione che il dialogo con Pechino è impossibile.”
Dalle colonne della CNN, l’esperto americano dello Xinjiang Sean Roberts si domanda se l’attacco di Tian’anmen non sia piuttosto un “grido di disperazione di un popolo al limite estremo della mostruosa macchina di sviluppo dello stato cinese.”
Secondo molti osservatori occidentali la minaccia del terrorismo uiguro, più che una realtà, sarebbe un pretesto per il governo cinese per controllare a stretto giro lo Xinjiang, regione ricca di risorse naturali (fornisce più del 40% delle riserve di carbone cinesi e un terzo delle risorse di gas e petrolio) e strategicamente piazzata tra la Cina e l’Asia Centrale.
Lo sviluppo della regione potrebbe inoltre servire ad assorbire la pressione demografica dell’est della Cina e a bilanciare lo squilibro economico tra la costa orientale e le province occidentali. Secondo il WUC, l’afflusso di cinesi han ha modificato profondamente la demografia dello Xinjiang: da 6% di han e 75% di uiguri nel 1953 a 40% di han e 45% di uiguri oggi, ovvero circa 10 milioni di uiguri.
Per attenuare il divario economico tra le province, il governo cinese ha lanciato negli anni 2000 un grande piano di sviluppo delle regioni occidentali, tra cui lo Xinjiang. Secondo Castets, « il governo pensa che elevando il livello di vita delle popolazioni riuscirà a legittimare la sua sovranità sulla regione. L’unico problema è che i coloni e le zone han beneficiano maggiormente di questo trasferimento di capitali e quindi le ineguaglianze nei redditi […] tra han e uiguri continuano ad essere notevoli.”
Gli uiguri si dicono vittime di discriminazioni sul mercato del lavoro, limitazioni nell’uso della loro lingua e nelle pratiche religiose e culturali, perquisizioni illegali e rapimenti da parte delle autorità; ma hanno avuto difficoltà a far conoscere la loro causa al di fuori della Cina. “È dal 2001,” spiega Castets, “che gli uiguri hanno iniziato pian piano un’azione mediatica, ma senza suscitare lo stesso interesse dei tibetani, perché le opinioni pubbliche occidentali, bisogna dirlo, sono un pò islamofobe”.
Nel 2001 infatti alcuni uiguri vengono arrestati in Afghanistan e deportati a Guantanamo come terroristi dalle forze armate americane. Gli uiguri hanno cominciato ad organizzarsi politicamente alla fine degli anni ‘80, creando il Partito Islamico del Turkestan Orientale, composto da non più di qualche centinaia di militanti e presto distrutto dalle autorità cinesi.
Gli uiguri arrestati nel 2001 dagli americani sarebbero i resti di questo gruppo, costituitisi poi nel MITO e delocalizzatisi tra Pakistan e Afghanistan per sfuggire alla sicurezza cinese e anche, se possibile, accattivarsi il sostegno finanziario dei gruppi jihadisti internazionali. In seguito il MITO ha rivendicato alcune azioni terroristiche in Cina, ma la credibilità di queste rivendicazioni è messa in dubbio da molti esperti.

Remi Castets
“I gruppi che promuovono l’azione armata presso gli uiguri sono ultra-minoritari,” dice Castets. E ancora più marginali sono le frange islamiste che portano avanti un discorso basato sulla differenza religiosa. Anche se per la maggioranza dell’opposizione uigura oggi la questione porta sui diritti civili e politici, gli uiguri hanno avuto difficoltà a scrollarsi di dosso l’immagine di barbuti terroristi islamici.
Solo recentemente sono riusciti a trasmettere la loro causa in veste non-violenta, passando a un discorso più centrato sui diritti umani e culturali negati e sulla richiesta di reale autonomia – e non necessariamente d’indipendenza – all’interno della Cina.
Secondo Castets, il fatto che a novembre la Cina sia entrata a far parte del Consiglio ONU per i diritti umani non cambierà gran che per la situazione nello Xinjiang, “perché i dirigenti cinesi considerano che aprire un dialogo con l’opposizione uigura equivarrebbe a legittimarla […] e potrebbe quindi destabilizzare il loro controllo sulla regione.”
“Oggi,” continua Castets, “la grande difficoltà per il governo cinese è quella di elaborare una lettura della storia dello Xinjiang che porti gli uiguri a percepirsi come elementi della nazione cinese.”
La narrativa storica centralizzata e il modello univoco di modernità ad ogni costo proposti da Pechino non sembrano lasciare spazio sufficiente a certe differenze regionali e culturali, che, volenti o nolenti, si vedono integrate e diminuite nell’immensa macchina statale cinese.
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