La Corte di Cassazione ha annullato la condanna dell’ex Sindaco di Roma, Ignazio Marino, per il peculato e il falso “in scontrino”. Restituendolo alla sua integrità giuridico-penale. Molto bene.
Tuttavia nessun “annullamento” può riscattare la libertà politica dei romani, e, in genere, dei cittadini italiani, dal suo sequestro permanente, frutto di “effetti irrevocabili”. Ma alla produzione e alla sedimentazione di questi effetti, lo stesso Marino ha contribuito, e attivamente. E Matteo Renzi, a suo tempo, in parte.
L’epilogo maldestramente ondivago dell’ex Sindaco romano: la sua rinuncia; poi la rinuncia alla rinuncia; quindi la rinuncia dei consiglieri comunali alla rinuncia alla rinuncia del Sindaco medesimo, infatti, non sono stati l’espressione di un’esperienza politica che si inabissa per avere amministrato male, o peggio di come ci si attendeva.
Ha semmai esemplificato, con tutta la risonanza che Roma può suscitare in Italia, che la realtà della politica: atti, azioni, scelte, mete, non presentano alcun rilievo.
Ma, è questo il punto: la politica incarnata nella realtà non ha rilievo perché, deliberatamente, tutto si scioglie in un racconto, in una “presentazione”, una sorta di Maxipowerpoint: incessante, facile, accattivante e godibile, come una melodia da canticchiare nel corso della giornata.
Marino non si è candidato, alle primarie del Partito Democratico prima e a Sindaco di Roma poi, per agire: ma per impersonare una dramatis persona, un personaggio su un proscenio.
Il personaggio era quello del “marziano”: a significare una siderale distanza dai suoi predecessori.
Una volta preso l’abbrivio, l’incantamento avvince: non si parla di trasporti, di responsabilità amministrative dei singoli dipendenti, di smaltimento dei rifiuti, di asili nido, di urbanistica, di scuole, di bilancio, a partire da un punto certo per arrivare ad un altro punto certo.
No: si esclude che l’azione amministrativa abbia una reale dimensione, e si caldeggia un’interpretazione in cui valgono solo immagini-chiave, ammiccamenti: “discontinuità”, “legalità”, che accantonano l’amministrazione attiva e alimentano un perenne “dibattito”, il commento, la storia. Così, le necessità minime e massime della vita associata, che proprio nell’amministrazione locale dovrebbero rinvenire la prima e più immediata audizione, vengono scarnificate e ridotte al ruolo di comparsa.
L’interpretazione/racconto è quella per cui gruppi criminali hanno assorbito la vita della città: tutt’intera, ogni centimetro, ogni centesimo, ogni battito di ciglia. Sicchè, l’inerzia, l’inadeguatezza, le carenza della Giunta (di quella o di qualunque altra che “faccia il personaggio”), se mai si ammettessero, sarebbero comunque spiegabili come perenne ed insondabile effetto di quella presenza spettrale. E perciò, espunte dalla realtà.
Quando la Procura della Repubblica ha esposto en plein aire (un’assemblea del PD) l’inchiesta Mafia Capitale, il racconto si è inarcato fino alle vette della Verità Assoluta. In conformità ad un “investimento pedagogico-giudiziario” su cui si è esercitato, as usual, anche un nutrito corteggio pubblicistico-accademico. Il 416 bis come Nuova Frontiera, e la pompa di benzina come Toro Seduto.
E Falcone che pronosticava, sciocchino, la naturale finitezza della mafia come “fenomeno umano”, riposi in pace: che già da vivo, come insegnava Sandro Viola su Repubblica, era già un “guitto”. Con tutte le sue cautele e i suoi inviti a distinguere e a delimitare proposte dovunque gli riuscisse: anche innanzi il CSM, naturalmente inascoltato (perché accusato).
Vedete (prevede la piece)? C’era del marcio, e c’è ancora, e sempre ci sarà: perciò tutto quello che io dovevo fare, ha recitato il Sindaco, era parlarvi del marcio, raccontarvelo. Non altro. Solo che gli interessi criminali colpiti, anzi politico-criminali, anzi politico-cultural-criminali, non desistono: perciò tanto hanno fatto, che mi sono dimesso.
Recita. Copione. Sudditanza della politica ad una “Superiore Pedagogia”.
Un alibi perfetto per ogni inerzia, questa rappresentazione: il compagno inseparabile di ogni incapacità.
E dopo di lui, dopo “Il Marziano”, allo stesso modo, Raggi: la Fanfaluca al Potere.
E l’Italia, triste, truce e fanfarona, che ne è venuta.