A certi giovani performers contemporanei che nelle loro canzoni denunciano i problemi della nostra difficile società consigliamo: provate a passare una serata con Bobby Solo. Prima di ricorrere alle sette note per lamentarvi dei mali del mondo cercate di cambiare la società con la leggerezza di una canzone. Questo è il messaggio artistico di Roberto Satti, in arte Bobby Solo. Fedele a se stesso ed alla leggenda mediatica legata al suo nome. Dicono che il suo manager, trovandolo una persona semplice e spontanea, oltre che talentuosa, ordinò alla segretaria della casa discografica di registrarlo con il nome d’arte di Bobby. “Mi raccomando: solo Bobby”. Ma lei comprese Bobby Solo. E così è rimasto. Alcuni dei suoi successi hanno segnato l’ Italia del boom economico: “Una lacrima sul viso”; “Se piangi, se ridi”; “Non c’è piu’ niente da fare”; “San Francisco”; “Zingara”. Capitano di lungo corso e di simpatica incoscienza nel grande mare della vita, in cinquantasei anni di onorata carriera Bobby Solo ci dimostra di avere brillantemente superato gioie e dolori con il suo incrollabile ottimismo, prima di tornare alla attuale e definitiva gloria artistica. Bobby Solo appartiene alla generazione precedente alle classificazioni di genere. Per intenderci, alla generazione di Celentano, Mina, Rita Pavone, Johnny Dorelli. Generazione privilegiata da una istintiva combinazione di presenza scenica, talento artistico e naturale capacità di sintonizzarsi con il pubblico. Sono doti che, messe insieme, catturano gli spettatori e li fidelizzano definitivamente, senza ricorrere a stereotipi sociali o politici per confermarsi nel tempo. Risultato: la relazione di Bobby Solo con il suo pubblico ancora oggi è diretta, immediata, continua e reciprocamente entusiastica. Il pubblico trova nelle sue esibizioni esattamente ciò che si aspetta. E Bobby Solo accontenta i suoi fans semplicemente esibendo ciò che sa fare e ha sempre fatto. Senza ricorrere ad alcuna forzatura, ideologia, trasgressione, o nostalgia. È un invidiabile privilegio che solo i grandissimi possono permettersi. Come il suo idolo musicale: Elvis Presley.
Bobby, ma tu hai mai incontrato Elvis Presley?
“Purtroppo ho avuto relazione solo con il suo manager, che aveva un difficile carattere. Per esempio: negli anni Sessanta io lavoravo per la filiale italiana della società discografica RCA Records di New York. Chiesi di entrare in contatto con il potentissimo presidente di RCA USA, David Sarnoff, che con Joseph P. Kennedy, il patriarca della famiglia Kennedy, aveva fondato la RKO Radio Pictures. Ebbene: grazie a RCA USA riuscii a fare arrivare al manager di Elvis la mia richiesta di avere un autografo con dedica. La sua risposta fu positiva: ma voleva anche essere pagato seimila dollari per evitarmi di speculare sull’autografo. Era una cifra enorme. Rifiutai”.
Come è nata la tua passione per gli USA?
“Nasce dalla mia famiglia. Mia madre, che aveva vissuto in America, era sposata con un pilota militare, poi assunto dall’Alitalia: Bruno Satti. Dall’America papà mi portava sempre dei regali. Mia sorella, prima di trasferirsi negli States, era stata la baby sitter dei figli di Clare Booth Luce, ambasciatrice americana a Roma e moglie di Henry Luce, fondatore ed editore di riviste come Life, Fortune, Time. Ricordo quando andavo in ambasciata, a Villa Borghese: condividevo i giocattoli con i figli del personale americano, e parlavo con loro”.
Allora quando iniziasti a fare il cantante “all’americana” tu non imitavi la lingua e la cultura ma le conoscevi veramente.
“È vero. A quattordici anni ero il fidanzatino di una ragazza americana, Betsy, la figlia del corrispondente da Roma del New York Herald Tribune. Lei continuava a parlarmi di Elvis Presley. Non sapevo chi fosse. A quei tempi non esisteva internet. Telefonai in America, a mia sorella. Mi mandò due dischi di Elvis: uno con “Love me tender”; l’altro con “Shake, rattle, and roll” e “Lawdy, Miss Clawdy”. Li ascoltai e subito provai un brivido . Decisi che quella sarebbe stata la mia musica.
Ci racconti dei tuoi esordi negli States?
“Arrivai che avevo solo diciannove anni. In aeroporto mi inginocchiai e baciai la terra: per me iniziava l’American Dream. La mia prima tournée in USA fu organizzata da un gruppo di quattro impresari artistici italo-americani. Santino Forzano, di origine messinese, già musicista con l’orchestra di Billy May. Tommaso Salomone, siciliano, proprietario di una piccola tv locale. Joe Valente, di origini pugliesi. Pat Cajano, detto Brylcreem per il suo enorme ciuffo impomatato, poi diventato attore. Oggi lo show business è certamente più evoluto. Star come Eros Ramazzotti e Laura Pausini fanno lunghe tournée e riempiono gli stadi delle grandi città metropolitane. Invece ai miei tempi, io, Gianni Morandi, Little Tony e Orietta Berti facevamo dei brevi tour di 30 giorni. Ci esibivamo in città come Boston, Paterson, Buffalo. Cantavamo nelle palestre delle scuole, e nelle aule delle università. Era un altro mondo”.
Che ricordi hai delle altre star che hai incontrato?
“Fra i tanti, ricordo l’incontro con Johnny Cash. Si esibiva nella base americana di Francoforte, in Germania. Mi portarono nel suo camerino. Era un gigante di quasi due metri, con un lungo cappotto di pelle nera. Si rilassava giocando a flipper prima del suo concerto. Si voltò. Mi diede la mano. Avevo ventidue anni: mi mancarono le parole. Poi mi accompagnarono a vedere il suo show. Il chitarrista era Carl Perkins, il compositore di “Blue suede shoes”, canzone che avrebbe voluto portare al successo. Ma ebbe un incidente d’auto. Elvis notò questa canzone: la interpretò. Fu un successo mondiale. Con Johnny Cash c’era anche il manager Bob Neal, braccio destro del Colonnello Parker, l’impresario di Elvis”.
Ci risiamo: Presley rimane il tuo idolo…
“Certamente. La sua vita, le sue esperienze, il suo gruppo di lavoro sono ormai leggenda. Per esempio: il famoso Colonnello Parker, il manager di Elvis, aveva un passato avventuroso. Il suo vero nome non era Parker ma Dries van Kuijk. Era olandese. Nel mondo dello spettacolo girava voce che in gioventu’ fosse scappato da Amsterdam dopo un omicidio. Poi si era imbarcato come clandestino su una nave. Arrivo’ in America da clandestino: senza passaporto. Riusci’ a trovare lavoro come manager di artisti da circo. A metà degli anni Cinquanta gli segnalarono un cantante che si esibiva in Louisiana negli hayride, le fiere di paese, e faceva impazzire le donne. Era Elvis Presley: cantava su un vagone ferroviario che si apriva e diventava un palcoscenico”.
Hai altri ricordi?
Di Fats Domino, quello di “Blueberry Hills”, ho un ricordo particolare. Stavamo cenando insieme. Ad un tratto mi fissa e dice: “Bobby, never put your money into a bank”. Rimasi senza parole. Chiamò i suoi bodyguards. Viaggiava con una enorme valigia che conteneva pietre preziose ed almeno un milione di dollari in contanti. Ricordo anche Diana Ross. Quando arrivai a New York, Ettore Stratta, direttore artistico della CBS, di origini piemontesi, mi portò alla Capital Records per assistere alla registrazione di “Where did our love go”. Erano le dieci di mattina. Diana Ross e il suo gruppo Le Supremes registrarono la canzone al primo tentativo e senza errori: incredibile!”.
Arrivasti al successo che non avevi vent’anni. Come ci si sente in quei momenti?
“Ero imbarazzato, a disagio. Mi trovai catapultato dai banchi di scuola direttamente al Festival di Sanremo. Non ho fatto la gavetta, come molti altri colleghi. Un apprendistato, magari nelle balere o nei locali di periferia, mi avrebbe aiutato a gestire meglio il successo che ho avuto. Per esempio: non mi curavo di arrivare puntuale alle interviste con i giornalisti”.
Dicono che la musica si è evoluta, che è cambiata rispetto al passato. Cosa ne pensi?
“La musica è come un enorme menu: ognuno può prendere ciò che vuole o che sa fare. La musica leggera, la pop music, è sempre stata lo specchio della società. Negli anni Sessanta la musica leggera descriveva l’ ltalia del boom economico. Che voleva dimenticare le difficoltà della guerra, voleva divertirsi. C’era piena occupazione. C’era voglia di amarsi e quindi di cantare melodie come “Abbronzatissima” di Edoardo Vianello oppure “Sapore di sale” di Gino Paoli.
Nei tuoi spettacoli riesci ancora a trasmettere una descrizione positiva della società, anche se oggi i tempi sono molto cambiati…
“È vero, me lo ricordano spesso. Continuo ad interpretare la realtà con lo spirito positivo degli anni Sessanta. In ogni caso, credo che il mondo d’ oggi viva dei problemi causati non dalla musica, ma dalla economia. Purtroppo noi cantanti non possiamo farci nulla”.
Hai una lunga carriera ed altrettanta esperienza di vita. Eri al massimo del successo negli anni Sessanta. Poi la disco music ti ha messo in disparte. Negli anni Ottanta diventi una icona vintage. Da allora ti confermi un perfetto rappresentante del rock&roll e sei ancora seguitissimo dai fans. Come hai vissuto gli alti e bassi della tua professione?
“Di natura rimango un ottimista. Per me il bicchiere è sempre mezzo pieno. Sono fatto così. Questo mi ha permesso di mantenere sempre la mia dignità anche nei momenti poco felici della carriera. Nel 1975 ero a Milano: volevo un giubbotto bianco che costava circa duecento dollari. Per consentirmi di acquistarlo il negozio chiese al mio manager di avere un pegno non solo sui diritti delle mie canzoni, ma anche sulla vendita dei miei dischi e persino sulle mie esibizioni live. Sono stati periodi difficili. Ma li ho superati”.
Cosa ti ha aiutato a rimanere te stesso?
“Il mio amore per la musica. Ancora oggi sono impegnato. Continuano a chiedermi esibizioni. Il pubblico mi segue ed è felice. A differenza di altre professioni, la musica non permette errori. Non puoi stonare. Te ne accorgi subito. La musica non tradisce”.
Che ricordi hai di New York?
“Vengo spesso negli States. Mia moglie Tracy ed il mio ultimo figlio, Ryan, sono americani. Conosco bene New York. Mi auguro di tornare presto in città per esibirmi e condividere la mia musica con i miei ammiratori”.