7 milioni di persone a cui occorre assistenza umanitaria, il 24% della popolazione con urgente bisogno di cure e protezione, il 94% degli abitanti che vive in condizioni di povertà, le importazioni di cibo crollate dal 75% al 66% tra il 2012 e il 2015 e una disponibilità sempre più limitata di acqua potabile. Il quadro tracciato sul Venezuela al Consiglio di Sicurezza ONU da Mark Lowcock, Under Secretary General for Humanitarian Affairs, è spaventoso, se possibile reso ancora più drammatico dai dati riportati da Eduardo Stein, Rappresentante Speciale aggiunto di UNHCR and OIM per i rifugiati e i migranti venezuelani, e da Kathleen Page, professoressa alla Scuola di Medicina della John Hopkins University e uno dei principali autori dell’ultimo report di Human Rights Watch sulla crisi umanitaria nella Repubblica bolivariana. Interventi, questi ultimi, che hanno preceduto quello dell’ospite d’onore della seduta-fiume del Consiglio, il vicepresidente degli Stati Uniti Mike Pence, al Palazzo di Vetro per chiedere alle Nazioni Unite di prendere posizione e riconoscere la leadership di Juan Guaidó.
Tornando ai dati di contesto, tra i numeri evidenziati da Stein i 3,7 milioni di venezuelani che hanno lasciato il Paese, l’80% dei quali è partito tra il 2015 e oggi, gli oltre 20 Paesi dell’America Latina colpiti dal flusso di popolazione e i 5 milioni di venezuelani che entro la fine dell’anno avranno lasciato il Venezuela. E ancora, secondo il rapporto di Human Rights Watch presentato da Page, concorrono alla crisi, almeno, un sistema sanitario al collasso, provato ulteriormente dai blackout elettrici, la mancanza di adeguata copertura vaccinale, che ha portato ad esempio a più di 2300 casi di morbillo registrati dal giugno 2017, l’aumento di casi di malaria e altre malattie, e una crisi nutrizionale che coinvolge adulti e bambini. Il report, che evidenzia come un terzo degli operatori del sistema sanitario abbiano abbandonato il Paese, punta peraltro esplicitamente il dito contro il governo di Maduro, considerato colpevole di minimizzare pubblicamente la portata della crisi umanitaria e di non fare abbastanza per affrontarla. Lo stesso Mark Lowcock, che pure aveva notato alcuni recenti passi avanti del Governo nel favorire l’accesso umanitario delle agenzie ONU, ha sottolineato che bisogna fare di più.
Ed è in questo quadro che Mike Pence si è presentato davanti al Consiglio, facendosi attendere qualche minuto dai suoi membri, per ribadire che quella posta dal Venezuela è una minaccia “alla pace e alla sicurezza dell’intera regione”. Il Vicepresidente non si è scomposto durante il suo intervento, ma ha articolato i punti chiave del discorso intervallandoli con alcune pause ad effetto e indirizzando strali infuocati all’ambasciatore del Venezuela all’ONU, Samuel Moncada Acosta: “Con il dovuto rispetto, signor ambasciatore”, ha detto Pence rivolgendosi al rappresentante di Caracas al Palazzo di Vetro, “lei non dovrebbe essere qui. Dovrebbe tornare in Venezuela e dire a Nicolas Maduro che il suo tempo è finito. È il momento di andarsene”.
Sì, perché il fine della visita di Pence era proprio quello di portare alle Nazioni Unite un messaggio: è ora che anche il tempio della diplomazia internazionale riconosca Juan Guaidó e i suoi rappresentanti di fronte alla comunità internazionale. Pence ha quindi ricordato che lo scorso febbraio la risoluzione presentata dagli USA che chiedeva a Maduro di garantire l’accesso dei convogli umanitari si era scontrata con i veti di Mosca e Pechino, e ha annunciato che gli Stati Uniti faranno circolare un’ulteriore bozza di risoluzione, questa volta a favore del riconoscimento di Guaidó. Un passo, quello di riconoscere il leader dell’Assemblea Nazionale recentemente destituito da Maduro, già compiuto da 54 nazioni in tutto il mondo, e solo ieri dall’Organizzazione degli Stati Americani. “Gli Stati Uniti sono orgogliosi di essere la prima nazione ad averlo fatto”, ha detto. E adesso, ha aggiunto, “è ora che le Nazioni Unite si esprimano”.
Sulle sanzioni, Pence ha annunciato che, secondo il presidente Trump, “possiamo essere ancora più duri”, ma ha anche avvertito che Washington stanzierà altri 60 milioni di dollari in assistenza umanitaria. E poi ha ammonito: “Gli Stati Uniti continueranno ad esercitare pressione economica e diplomatica per promuovere una transizione pacifica verso la democrazia, ma tutte le opzioni sono ancora sul tavolo”. Compresa, è il sottotesto, quella militare. Una minaccia rafforzata dal paragone finale con la lotta globale al nazifascismo durante la Seconda Guerra Mondiale, esempio di come “le nazioni di tutto il mondo” possano unirsi “per opporsi alla dittatura con una sola voce”.
A Pence, allontanatosi dalla sala subito dopo la fine del suo intervento, ha risposto l’ambasciatore russo Vassily Nebenzia, che si è detto “sorpreso ma non sorpreso” della visita del Vicepresidente, a suo dire dimostratosi per giunta “non interessato ad ascoltare gli altri membri del Consiglio”. Mosca, poi riecheggiata dall’ambasciatore venezuelano Moncada Acosta, ha contestato duramente la descrizione, effettuata dalle organizzazioni umanitarie e dagli Stati Uniti, della situazione nel Paese: “Dove avete preso questi dati?”, ha chiesto. Rivolgendosi poi alla professoressa Page, Nebenzia ha smentito l’epidemia di morbillo descritta, facendo sarcasticamente riferimento all’emergenza dichiarata dalle autorità di New York a Brooklyn. E ha chiosato, canzonando lo slogan elettorale di Donald Trump: “Se volete rendere di nuovo grande l’America, smettetela di interferire negli affari interni di altri Stati”.
I principali protagonisti di questa sessione del Consiglio di Sicurezza, dunque, si sono presentati al Palazzo di Vetro per avanzare delle richieste precise alle Nazioni Unite: Pence, sul tavolo del Consiglio e allo stakeout seguente, ha chiesto di riconoscere ufficialmente Guaidó e i suoi emissari internazionali; Page, presentando il rapporto di Human Rights Watch, ha esplicitato la richiesta dell’organizzazione di dichiarare uno stato di emergenza umanitaria nel Paese. Quando alla conferenza stampa con Page e Louis Charbonneau di Human Rights Watch noi della Voce abbiamo chiesto conto della ritrosia del Palazzo di Vetro a dichiarare l’emergenza umanitaria, forse dettata dal timore di alienarsi anche il livello di dialogo e cooperazione esistente tra Governo venezuelano e agenzie ONU, i due rappresentanti dell’organizzazione ci hanno fatto capire di considerare eccessiva la prudenza delle Nazioni Unite, e di aver visto come, in altre occasioni, siano state efficaci nell’esercitare pressione.
Dal canto suo, però, l’ambasciatore venezuelano Acosta, parlando con i giornalisti, ha contestato tanto l’istanza degli Stati Uniti, quanto quella di Human Rights Watch. In merito all’eventuale riconoscimento di un nuovo governo e dunque di una nuova delegazione venezuelana alle Nazioni Unite, ha chiarito che la Carta prevede l’opzione della sospensione dello status di membro su proposta sì del Consiglio di Sicurezza, ma su delibera dell’Assemblea Generale, dove è convinto che la maggioranza degli Stati sosterrebbe la causa del Venezuela. In merito al rapporto di Human Rights Watch e, più in generale, dei dati che descrivono una emergenza umanitaria, ne ha contestato la veridicità, negando con fermezza la sussistenza di una crisi umanitaria. “Una cosa è riconoscere che c’è una situazione economica difficile e complessa, altra cosa parlare di crisi umanitaria”, ha spiegato. Tale crisi, ha aggiunto, è “il risultato di uno shock interno o esterno”, e avviene quando lo Stato non ha i mezzi per affrontarla. Invece, ha puntualizzato, in Venezuela “c’è uno Stato e un Governo che lavorano”, ed è anche in corso una “cooperazione con le agenzie dell’ONU”, che l’esecutivo si sta impegnando a rafforzare. L’ambasciatore ha puntato il dito contro la “guerra finanziaria” che a suo avviso gli Stati Uniti starebbero combattendo già da tempo contro la Repubblica bolivariana,costringendo, attraverso le sanzioni, banche e compagnie assicurative a non toccare denaro venezuelano. Una situazione che, a detta di Acosta, avrebbe ripercussioni non solo sulla popolazione stessa, ma anche, ad esempio, sullo staff venezuelano alle Nazioni Unite, a cui è diventato possibile pagare gli stipendi.
L’ambasciatore ha anche contestato duramente il riconoscimento rivendicato da Pence, da parte dell’Organizzazione degli Stati Americani, dell’ambasciatore scelto da Guaidó e l’estromissione della delegazione diplomatica di Maduro. Una mossa da lui definita “una manovra politica illegale” perché, a suo avviso, la risoluzione è stata approvata dal Consiglio Permanente con 18 voti a favore, ma questioni di tale importanza dovrebbero essere decise non da una maggioranza semplice nel Consiglio Permanente, ma da una qualificata (di 24 voti) nell’Assemblea Generale dell’Organizzazione. E quando noi della Voce gli abbiamo chiesto che cosa pensasse della posizione dell’Unione Europea – che chiede sì nuove elezioni, ma non riconosce esplicitamente Guaidó in quanto frutto di un compromesso tra gli Stati membri –, Acosta ha indicato il Regno Unito come “il peggiore stato” dell’UE, colpevole, con la Bank of England di aver “congelato” 1,2 miliardi di dollari in oro venezuelano, mentre accusa il Governo di non rispondere alle necessità della popolazione. Più in generale, sull’Europa ha sottolineato: “Siamo consapevoli che l’UE rappresenti uno spettro di posizioni”. Ma, a suo avviso, l’Europa non sta cantando lo stesso ritornello di Trump. “Stanno cantando qualcosa di diverso, e noi dobbiamo apprezzare questa differenza”.