L’ultimo mese è stato forse il più difficile di sempre per l’amministrazione Trump. Fra testimonianze scomode, op-ed ostili, gabinetti ombra e la controversa elezione del giudice Kavanaugh, il tycoon ha dovuto incassare molti colpi prima di assestarne alcuni a sua volta. Forse, proprio per rassicurare il suo elettorato, Donald Trump ha concesso un’intervista a Lesley Stahl durante il programma “60 Minutes” andato in onda ieri su CBS. Il ritratto finale è stato quello di un Presidente isolato ma combattivo, più maturo rispetto al giorno dell’insediamento, tanto da dare l’impressione di aver trasformato la sua dottrina populista in un pensiero più cinico, in accordo con le teorie realiste delle relazioni internazionali. E se da una parte può anche darsi che questa strategia possa produrre risultati per gli Stati Uniti, dall’altra è probabile che riporti i rapporti fra Stati indietro di cento anni.
La fine dell’intervista sarebbe potuta essere un aggancio perfetto: “Now I very much feel like POTUS”. E’ l’immagine di un Trump che sembra essersi lasciato alle spalle le critiche sulla sua inesperienza in campo politico e militare, settori in cui tutti i Presidenti – eccetto lui – hanno lavorato prima di insediarsi nel più alto scranno. Almeno a parole, quindi, Donald Trump ha tentato di mostrarsi forte e sicuro, salvo tradirsi in più occasioni, contraddetto o corretto da Lesley Stahl.
La prima stoccata ha riguardato il tema sempre più urgente dei cambiamenti climatici. Trump, che non ha mai fatto mistero di essere scettico sulle teorie del global warming, ha affermato di non credere all’impatto umano sul clima e ha confessato il suo sospetto che gli scienziati possano avere “a political agenda”.
Dopo la laconica risposta, l’intervista si è spostata sul tema delle relazioni internazionali. In questo campo, Trump ha dato l’impressione di voler utilizzare un approccio cinico, realista, che faccia valere la ragione di stato sugli interessi ideali di cui gli Stati Uniti si sono fatti spesso portatori. Così, il Commander-in-chief, rispondendo ad una domanda sulla morte del giornalista Jamal Khashoggi, ha fatto sapere che non metterà in pericolo le ricche commissioni militari saudite in mano alle aziende americane: “I don’t wanna hurt jobs”. Se dovesse essere confermato il coinvolgimento della famiglia reale saudita nell’omicidio, Trump ha parlato di “severe punishment” pur non offrendo ulteriori dettagli. Intanto, per venire a capo della faccenda, il Presidente avrebbe inviato il Segretario di Stato Mike Pompeo in Arabia Saudita per incontrare il Re. ()
Just spoke to the King of Saudi Arabia who denies any knowledge of whatever may have happened “to our Saudi Arabian citizen.” He said that they are working closely with Turkey to find answer. I am immediately sending our Secretary of State to meet with King!
— Donald J. Trump (@realDonaldTrump) October 15, 2018
Ancora, parlando di Corea del Nord, il Presidente ha dovuto spiegare i suoi rapporti con Kim Jong Un. Per Donald Trump, nonostante non sia provato che i coreani si siano sbarazzati delle armi nucleari, la sua amministrazione ha evitato una guerra che sembrava alle porte alla fine del mandato di Barak Obama: “they haven’t tested a missile […] and we have a relationship now”. E quando Lesley Stahl fa notare al tycoon che la sua famosa ammissione “we fell in love” riguarda un dittatore che utilizza campi di concentramento e pratica l’eliminazione degli oppositori, The Donald risponde, ancora una volta machiavellico, che si tratta di un modo di dire utile “to get the job done”.
L’intervista si è poi spostata sul versante europeo. Trump ha duramente definito gli alleati occidentali degli approfittatori, alludendo al modo in cui gli Stati del Vecchio Continente hanno goduto dei benefici della NATO scaricando le responsabilità sugli USA. Il tycoon non ha escluso del tutto la possibilità di sciogliere il Patto Atlantico che però, secondo il Generale Mattis, ha evitato una Terza Guerra Mondiale. Dalla parte russa, invece, sempre seguendo il filone del realismo nelle relazioni internazionali, il Presidente ha ammesso di sospettare che Vladimir Putin sia coinvolto in omicidi politici e avvelenamenti ma di non sentirsi coinvolto come americano perché “it is not in our country”. Riguardo le ingerenze russe nelle elezioni presidenziali, il Commander-in Chief ha tentato grossolanamente di spostare l’attenzione sulla Cina, colpevole a suo dire di aver tentato di esercitare a sua volta una forte influenza durante le stesse elezioni.
L’intervista si è chiusa passando dalla politica estera a quella interna. Donald Trump ha ipotizzato che il Ministro della Difesa James Mattis possa essere un Democratico e non ha escluso che possa essere il prossimo a lasciare la Casa Bianca. Il tycoon ha poi dichiarato di essere felice del suo gabinetto nonostante non si fidi di alcune persone. Per lui, nel mondo della politica tutti mentono e sono pronti a pugnalare gli altri alle spalle rompendo accordi, a differenza del mondo degli affari in cui l’imprenditore newyorkese ha fatto la sua fortuna.
Il quadro, a fine trasmissione, è quello di un Trump politicamente più maturo ma dalle idee sovversive. La sua America non è più la paladina dei principi liberali e della collaborazione fra alleati ma una nazione protezionista, sempre guardinga e costantemente sospettosa, così come diffidente è il suo Presidente, isolato e con pochi fidati collaboratori. In “60 Minutes” è sembrata prevalere la sua visione della ragion di stato, pur dimenticando che, come insegna il XX secolo, di troppo cinismo si muore.