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Shutdown, il Governo degli Stati Uniti “chiude” e rovina la festa a Trump

A quasi un anno dall'insediamento del Presidente Donald Trump, Repubblicani e Democratici non trovano l'accordo sul budget del Governo: è stallo

Davide MamonebyDavide Mamone
Shutdown, il Governo degli Stati Uniti “chiude” e rovina la festa a Trump

Il Congresso degli Stati Uniti a Washington (Foto VNY / D.M.)

Time: 5 mins read

Shutdown poteva essere, shutdown è stato. A quasi un anno esatto dall’inizio del mandato di Donald Trump, il governo degli Stati Uniti d’America è ufficialmente in ghiaccio. Il Senato, infatti, non ha trovato la quadra per l’approvazione della legge per rifinanziare le spese governative. La deadline era fissata per venerdì 19 gennaio 2018, a mezzanotte. E nonostante i tentativi in extremis del Congresso, al termine di una 48 ore frenetica ma inconcludente tra le stanze del potere di Washington, tutte le attività “non essenziali” del governo sono state interrotte. E lo saranno fino a quando Repubblicani e Democratici non troveranno una soluzione per alimentare di nuovo il budget governativo.

Il Campidoglio, sede del Congresso

Sullo shutdown c’è sempre stata molta “letteratura”, ma in pochi hanno veramente idea di come funzioni. Politicamente, di solito, la tendenza è questa: quando il Presidente è dei Repubblicani si dice che è colpa dei Democratici che fanno ostruzionismo. E quando il Presidente è Democratico si incolpano i Repubblicani per lo stesso motivo. Un gioco delle parti facilitato, in genere, dalla composizione ibrida del Congresso (quando, ovvero, ci sono due maggioranze diverse tra Camera e Senato, una democratica e una repubblicana), ma che può registrarsi anche in un contesto con maggioranze “monocolore” (come, del resto, sta accadendo in queste ore). Un gioco che allontana lo stesso Congresso, probabilmente, dalla realtà delle persone, dalla gente comune e dagli stessi dipendenti pubblici, i cui stipendi dipendono dai fondi stanziati dal Congresso medesimo.

Tecnicamente, la procedura è invece questa. Secondo quanto sancito dal’Antideficiency Act, il sistema prevede che, senza l’approvazione dei relativi stanziamenti, che essi siano annuali o a breve termine, le attività governative non essenziali devono essere sottoposte a un arresto (appunto, a uno shutdown), fino all’approvazione di un successivo rifinanziamento. Se il budget non viene coperto dai fondi attraverso un accordo politico entro la deadline prestabilita, accordo votato a maggioranza dai due rami del Congresso, le principali attività amministrative delle agenzie governative sono costrette a lavorare con una percentuale risicata di dipendenti pubblici. In questo caso, ben 692.900 mila persone assunte dal governo non potranno lavorare perché manca, di fatto, la copertura finanziaria per pagarli. Di questi, spiccano i 370.000 (pari al 50%) dell’agenzia federale della Difesa, i 41.600 dell’agenzia Health and Human Services (55%) e i 56mila (pari all’80%) del Dipartimento “Intern”, che ha in mano la gestione e la conservazione della maggior parte delle risorse naturali del Paese. Oltre ai 1056 dell’Ufficio del Presidente che rimarranno a casa, a fronte dei 659 considerati invece “essenziali”. Parchi nazionali, zoo e musei gestiti da agenzie governative – quindi i principali – saranno chiusi. Così come gli uffici che elargiscono i permessi per il possesso delle armi.

Il budget del governo americano, i cui piani di spesa per le principali attività amministrative vengono generalmente chiusi l’1 di ottobre con l’inizio dell’anno fiscale, si è esaurito già da una manciata di settimane. E fin da dicembre c’era chi paventava la possibilità che si potesse concretizzare uno shutdown. Per questo la Camera, dove i Repubblicani hanno un’ampia maggioranza, ha approvato giovedì 18 gennaio una legge che garantiva (e garantisce) il ritrovamento delle risorse finanziarie per le attività governative almeno fino a metà febbraio. Il problema, però, è sorto al Senato. Per far passare la legge anche al secondo ramo del Congresso, infatti, sono necessari 60 voti su 100. I Repubblicani, dopo la sconfitta elettorale in Alabama di dicembre, arrivano potenzialmente a 51 (52 comprendendo il vice-presidente Mike Pence, che ha facoltà di voto). Un numero insufficiente, che ha costretto (e costringerà) il partito di maggioranza a sedersi attorno a un tavolo con i Democratici, per convincere almeno 9 di loro a votare la legge.

Il momento del voto: finirà 50 a 49

Le trattative delle ultime ore prima della scadenza della deadline sono fallite tutte. Il voto in Senato nella notte di venerdì 18 gennaio è finito 50 a 49. I Democratici al Senato infatti non hanno considerato per nulla sufficiente il testo votato a maggioranza alla Camera dai Repubblicani, principalmente perché manca una soluzione per coloro che, con l’abolizione del programma DACA, perderanno l’immunità dall’espulsione: il riferimento è ai cosiddetti “Dreamers”, i figli di immigrati irregolari arrivati negli Stati Uniti da piccoli e sulla carta anch’essi irregolari, ma protetti dal programma “Deferred Action for Childhood Arrivals”, approvato da Obama e difeso dai Democratici, smantellato da Trump e dai Repubblicani. Repubblicani che hanno provato fino all’ultimo, per convincere i Dem, a proporre in alternativa un piano di copertura per le spese sanitarie per 9 milioni di bambini, osteggiato persino da una parte dei Repubblicani, ma ampiamente sostenuto da Trump per evitare lo shutdown. Viceversa, una parte dei Democratici aveva anche messo sul piatto la possibilità di inserire il muro al confine con il Messico nel tavolo della trattative, a patto di garantire la protezione ai Dreamers del programma Daca. È andata male, non è stata sufficiente nessuna di queste soluzioni, il compromesso non è stato trovato. Solo una manciata di Democratici ha infatti votato a favore della legge: tra questi Joe Manchin, Joe Donnelly, Heidi Heitkamp, Claire McCaskill. E nemmeno tutti i Repubblicani hanno detto sì: Rand Paul, Lindsey Graham, Mike Lee e Jeff Flake si sono detti infatti contrari alla proposta di legge. Mentre John McCain, in lotta contro il cancro, era assente dall’aula.

Il tweet di Donald Trump

Proprio Donald Trump, a un paio d’ore dalla mezzanotte di venerdì 19 gennaio, con lo spettro dello shutdown sempre più in avvicinamento, aveva attaccato i Democratici in un tweet incolpandoli dello stallo al Senato: “Non sembra per niente buono, per il nostro grande esercito o per il mantenimento della sicurezza sul pericoloso confine meridionale. I Dems vogliono lo shutdown per contribuire ad arginare il grande successo dei tagli fiscali (della riforma Trump, ndr), cosa stanno facendo alla nostra economia in piena espansione” ha tuonato il Presidente. Lo shutdown, infatti, blocca le principali attività governative e condiziona la qualità del loro operato. E ora a Trump tocca vivere l’esperienza già vissuta da Barack Obama nel 2013, quando con un Congresso metà rosso (i Repubblicani controllavano la Camera) e metà blu (i Democratici il Senato), si ritrovò a dover governare gli Stati Uniti in shutdown per ben 17 giorni (dall’1 al 17 ottobre). Prima ancora era successo a Bill Clinton, che lo dovette affrontare invece in due occasioni: dal 14 al 19 novembre 1995, dal 16 dicembre 1995 al 6 gennaio 1996, per un totale di 27 giorni.

Il testo del duro statement della Casa Bianca

Ora è la volta di Donald Trump. Il cui vicepresidente Mike Pence ha definito “incosciente” l’atteggiamento dei Democratici. Mentre tramite uno statement ufficiale, la Casa Bianca ha duramente condannato il comportamento degli “obstructionist losers” (tradotto: “i perdenti ostruzionisti”), confermando il muso contro muso: “Non negozieremo sullo status di immigrati illegali (i Dreamers, ndr)”. Ma anche da parte dei Democratici, lo scontro rimane acceso: “Questo verrà definito il ‘Trump shutdown’, perché non c’è nessuno più di lui che merita la colpa per la posizione in cui ci troviamo”, ha detto in un durissimo intervento il Senatore di New York, Chuck Schumer, ribadendo: “Signor Presidente Trump, se sta ascoltando e spero di sì, il modo in cui lei si è comportato oggi in relazione a un accordo bipartisan, fa quasi sembrare che lei fosse speranzoso di uno shutdown”. Schumer ha poi attaccato: “In cambio di una protezione forte sul DACA avevo messo sul tavolo persino il muro al confine del Messico. Nonostante questo, non è stato sufficiente per convincere il Presidente a trovare un accordo”.

Intanto, se potenzialmente lo scioglimento del nodo politico potrebbe avvenire in poche ore, così come in una manciata di giorni o, peggio, di settimane, le tensioni continuano a essere molto accese. E il governo degli Stati Uniti, per ora, ha chiuso i battenti. Fino a data da destinarsi.

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Davide Mamone

Davide Mamone

Davide Mamone è un giornalista freelance di base a New York. Cresciuto a Milano, di origini palermitane, collabora con Radio Popolare, ha scritto reportage per testate italiane come L'Espresso, Panorama e InsideOver e per testate americane come Market Watch del gruppo Dow Jones Newswires. Ha coperto le Nazioni Unite per La Voce di New York.

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