La “mossa” dell’immobiliarista, o meglio da “palazzinaro”, Donald J. Trump, la conosce molto bene. L’ha usata come strumento di campagna elettorale per mesi. La utilizza da quando è al governo degli Stati Uniti da gennaio. E di recente, con il DACA, l’ha proposta ancora una volta. Acronimo di Deferred Action for Childhood Arrivals, il piano DACA, approvato nel 2012 da Barack Obama per permettere la tutela di migliaia di giovani, figli di immigrati irregolari, ha sempre rappresentato una decisione difficile da digerire per l’ala più conservatrice dei Repubblicani. Quell’ala meno disposta a trattare sui temi dell’immigrazione, quella che è stata a lungo accarezzata e coccolata dal candidato Donald, diventato presidente Trump, durante la “campaign” del 2016.
A Washington sono le 8.04 del mattino, è il 5 settembre 2017. Il Commander-in-chief prende in mano il suo smartphone, entra su Twitter e scrive: “Congress, get ready to do your job – DACA!”. Traduzione letterale: “Congresso, preparati a fare il tuo lavoro sul DACA!”. Traduzione metaforica: “È giunto il momento di smantellare il piano DACA di Obama, come richiestomi dagli ambienti più conservatori che mi hanno votato: pronti?”. Un tweet che sarebbe stato di lì a poco ripreso, in un discorso più lungo e articolato, dal ministro della Giustizia Jeff Sessions, intervenuto in diretta televisiva nazionale per spiegare le ragioni della scelta.
Le reazioni alla decisione di Trump sul DACA non si sono fatte attendere e non sono state leggere. Anzi, forse sono state più violente del solito. Ma il tycoon, questo, probabilmente se lo aspettava. Perché i “Dreamers” – così sono stati definiti gli 800mila ragazzi, figli di immigrati irregolari e protetti dal programma DACA – secondo molti americani non si devono toccare. E il piano pensato da Obama e approvato con un ordine esecutivo nel 2012, senza passare dal Congresso, aveva un obiettivo ben preciso: permettere a questi giovani ragazzi di studiare e lavorare sul territorio americano, senza il rischio di essere rimpatriati per colpa degli errori dei genitori. Un’idea che è piaciuta agli ambienti più a sinistra del Paese, quelli che ad esempio hanno organizzato una protesta lampo nella stessa giornata di martedì 5 settembre a New York: una marcia iniziata sotto la Trump Tower sulla 5th Avenue e terminata al Brooklyn Bridge, e nella quale non sono mancati gli scontri. Ma un’idea che, oggi, non sembra essere così tanto criticata nemmeno da alcune correnti dei Repubblicani al Congresso, che pare abbiano già capito quanto letali potrebbero essere le conseguenze sull’economia americana, se il DACA dovesse essere smantellato così come proposto da Trump.
Se i quasi 800mila aderenti al progetto DACA venissero rimpatriati dall’oggi al domani, infatti, il sistema americano ne subirebbe il colpo. E a ricordarlo, in una lettera, sono stati cinque manager di un certo calibro nella stessa giornata di martedì 5: Mark Zuckenberg (Facebook), Jeff Bezos (Amazon), Tim Cook (Apple), Satya Nadella (Microsoft) e Sundar Pichai (Google), che hanno messo nero su bianco cifre che fanno riflettere. Perché il 97% dei giovani aderenti al programma DACA oggi studia o lavora nel Paese, mentre il 65% di loro ha acquistato una macchina e il 16% ha addirittura già comprato una casa. In molti sono diventati donne e uomini, da ragazze e ragazzi che erano. Donne e uomini americani che, nella sostanza, pagano le tasse come tutti gli altri. Formazione e professionalità, rate e mutui: con la decisione di Trump, sfumerebbe tutto questo entro sei mesi – il tempo che il Congresso ha a disposizione per ratificare la sua decisione – e il “PIL americano potrebbe perdere” qualcosa come “460 miliardi di dollari”. Più o meno, dati alla mano, il PIL pro capite dello Stato del Michigan nel 2015.
Ma Trump, tutto questo, probabilmente già lo sapeva. E la “mossa” dell’immobiliarista l’ha fatta consapevolmente, senza timore delle conseguenze, con la volontà anzi di aprire la trattativa fin da subito, sia con i Democratici, sia con i suoi stessi Repubblicani. Perché “i palazzinari” in genere fanno così, o no? Quando comprano o vendono, trattano e negoziano. La sparano grossa, forzano la domanda e forzano l’offerta, dicono ad alta voce dove vorrebbero arrivare se solo dipendesse da loro. E poi, a seconda di quanto forti siano le reazioni della controparte, trattano al ribasso per ottenere il massimo risultato possibile, partendo però dal limite imposto da loro, non da quello della controparte. Donald Trump ha costruito due campagne elettorali così: prima quella delle Primarie dei Repubblicani che ha vinto da sfavorito, poi quella per la presidenza contro Hillary Clinton, che ha vinto da (stra)sfavorito. In entrambe diviso tra insulti e “comebacks”, tra provocazioni e dietrofront, nelle quali ha usato la “mossa” dell’immobiliarista come strategia di marketing personale e di comunicazione elettorale.
Anche col DACA, il tycoon ha riproposto la stessa strategia già usata in passato: tweet iniziale dal contenuto sorprendente, polemiche accese sfociate in scontri, mezzo passo indietro. Un cerchio che anche questa volta, come spesso è accaduto, si è chiuso con un secondo tweet chiarificatore. Sempre il 5 settembre 2017, ore 7.38 della sera, Trump cinguetta: “Congress now has 6 months to legalize DACA (something the Obama Administration was unable to do). If they can’t, I will revisit this issue!”. Traduzione letterale: “Il Congresso ora ha 6 mesi di tempo per legalizzare la posizione dei DACA (qualcosa che l’amministrazione Obama è stata incapace di fare). E se non ci riescono, esaminerò di nuovo la questione!”. Traduzione metaforica: “Lo so che farla passare così come l’ho proposta al Congresso è difficile, ma almeno sapete come la penso io: comunque si parte dalla mia proposta di smantellamento, il resto si vedrà”.
E mentre le proteste, che certo questa volta sono state più immediate del solito, continuano – un altro corteo di protesta è atteso per sabato 9 settembre a Columbus Circle a New York, dopo l’annullamento di una seconda marcia prevista per mercoledì 6 -, Trump continua a forzare i contesti per ottenere il massimo risultato dalle singole situazioni. Una scelta strategica che ha pagato tanto in passato, ma che ha già pagato meno da quando al governo del Paese (vedi Obamacare e politica estera, dove sulla Corea del Nord è passato dal “fuoco e fiamme” alla via diplomatica, senza risultati concreti). Una scelta che sembra destinata a caratterizzare l’intero operato di Trump, da qui fino alla fine del suo mandato. Prima che sia troppo tardi, ovviamente, e che la forzatura “immobiliare” del giorno, si tramuti in una corda tirata troppo e spezzata per sempre.