Ai liberisti di sinistra, i più pericolosi, piace ripetere che la maggioranza degli italiani è di destra, che lo è sempre stata e continuerà a esserlo, e in questo modo cercano di giustificare il loro trasformismo e il loro elitismo antipopulista. Comunque hanno torto: la maggioranza degli italiani non è di destra; è attaccata alle proprie tradizioni. Ci sono periodi in cui ciò si esprime in un sostegno a partiti e politiche di destra ma altri in cui la lotta per l’eguaglianza economica e per i diritti collettivi (i due obiettivi primari di qualsiasi movimento autenticamente di sinistra) passa attraverso la difesa dei valori di un popolo e dei suoi costumi e non attraverso il loro smantellamento.
È il caso del nostro tempo: la sfida progressista di oggi è conservare: conservare l’ambiente, le comunità, le culture e le differenze; erigere barriere contro l’imperialismo omogeneizzante della finanza e delle multinazionali, dei loro media, delle loro tecnologie (ossia del modo in cui le usano e sviluppano); organizzare una resistenza contro l’irresponsabile e frenetico consumismo di prodotti e di esperienze voluto dal neocapitalismo e dai suoi fiancheggiatori globalisti al solo fine di arricchire oscenamente una minuscola casta.
Serve decrescita, economica e demografica, e serve una decelerazione sociale e culturale; servono ritmi di vita e di sviluppo sostenibili, lenti e gestibili dalla gente, non imposti a essa dai ricchi (spesso stranieri) e dai loro tecnocrati (chiusi in bolle generazionali o di privilegio). Serve insomma un modello alternativo rispetto a quello americano dominante, fondato sulla quantità e sullo spreco, sul consumo immediato, sull’attualità e sull’assenza di storia, sulla concentrazione della produzione e distribuzione nelle mani di poche mega-corporation, sulla mobilità sociale e lo sradicamento culturale.
Perché allora non salvare, rafforzare e proporre il modello italiano? Uno slow food esteso all’intera società? Perché non valorizzare proprio la nostra consolidata avversione a cambiamenti troppo rapidi e superficiali, ma per una volta da sinistra, ossia non per preservare ingiustizie e disparità bensì per combatterle? Un modello fondato sulla qualità, sulla cultura, su legami di memoria e di appartenenza (la “corrispondenza d’amorosi sensi” con il comune passato, celebrata da Ugo Foscolo in una delle poesie che più compiutamente esprimono l’identità italiana).
Certo, un modello capace anche d’innovazione, che peraltro ha caratterizzato buona parte della nostra storia; ma un’innovazione graduale, organica, programmata, non semplicemente subìta per placare l’avidità degli speculatori internazionali o i desideri indotti dalla loro ossessiva pubblicità. Non si tratta affatto di rinunciare a cambiare il mondo, a costruire una società più equa e felice; al contrario, si tratta di tornare a quell’aspirazione e a quell’impegno, smascherando il falso mito delle novità (e delle rottamazioni) fini a sé stesse, utili soltanto a distogliere l’attenzione della gente dai problemi reali, dalle vere esigenze, dal profondo bisogno di continuità.