Spero che qualcuno si ricordi che a lungo uno dei principi fondamentali e irrinunciabili della democrazia è stato la segretezza del voto. “Voto nullo! Ha mostrato il voto!”, grida una rappresentante di lista nella Giornata d’uno scrutatore di Italo Calvino: una scelta esibita giustificava il sospetto di un condizionamento, di una limitazione della libertà. Per lo stesso motivo ancora oggi viene considerata non valida una scheda con scritte o segni che potrebbero consentire l’identificazione dell’elettore; e molti resistono al voto per corrispondenza con l’argomentazione che il fatto che non sia presidiato lo esponga a possibili pressioni e controlli. Ma i liberisti insistono che questo rigore va rottamato: contano solo i grandi numeri e in fondo si sa già tutto prima, grazie ai sondaggi.
È la grande truffa del nostro tempo: far credere alla gente che valgano solo i risultati, non i procedimenti; come se i risultati fossero valutabili in sé, autonomamente, e non rispetto a un sistema di valori e di norme condivise. Penso che in effetti l’obiettivo primario del liberismo sia la deregulation: economica ma anche morale, culturale e politica. Al fine di consentire il dominio assoluto dei più forti, dei più ricchi, dei più furbi – una regressione alla competizione darwiniana tenuta in scacco per secoli dalla civiltà e dalla democrazia. Basta ascoltare Renzi e i suoi cortigiani con un minimo di attenzione: spesso mentono però più spesso dicono cazzate, che come dimostrò un filosofo americano, sono socialmente ancora più deleterie in quanto non si limitano a contraffare la verità ma ne negano l’importanza. (È sintomatico che il libretto di Harry Frankfurt, Bullshit, continui a essere ristampato in America ma non sia più in commercio in Italia).
Due domeniche fa Renzi e Napolitano hanno intenzionalmente abolito la segretezza del voto. Come? Chiedendo ai loro servi e sudditi di esprimere il loro rifiuto della modifica proposta dal quesito referendario in modo palese e verificabile, ossia senza recarsi ai seggi e dunque rinunciando alla libertà di coscienza garantita dalla cabina elettorale. Un po’ come nelle elezioni plebiscitarie indette nel 1929 e 1934 da Mussolini, nelle quali gli elettori ricevettero due schede, una tricolore per il sì e l’altra bianca per il no in modo da rendere manifesto il voto (e non stupisce che i sì furono oltre il 99,8%).
Molto comodo: chi il 17 aprile era a favore delle trivelle ha potuto documentarlo: gli è bastato mostrare la tessera elettorale priva di timbro. Da qui la sfilata di opportunisti e inetti che per conservare le loro poltrone o i loro privilegi (o per far sapere di ambire a esse) hanno potuto provare al loro spietato ducetto la loro lealtà personale. Tutto ciò è illegale: coartare il voto o turbarne le operazioni è reato. Peccato che coloro che dovrebbero vigilare, gli intellettuali italiani, siano in vendita al miglior offerente; e che la maggior parte della gente ancora non abbia capito che è inutile indignarsi per la corruzione dei potenti, l’ineguaglianza economica, la svendita del paese alle multinazionali straniere, se non si difendono i meccanismi e i formalismi che permettono alla democrazia, e dunque alla magistratura e alla stampa, di funzionare.
Un’altra considerazione sulla truffa antidemocratica rappresentata dall’invito ad astenersi in un referendum con quorum. A votare non va mai il 100% degli aventi diritto, neppure quando sia obbligatorio. Persino nelle elezioni del 1953, quelle di cui racconta La giornata d’uno scrutatore, si astenne il 6% (record minimo nella storia della Repubblica); negli ultimi trent’anni la percentuale è stata sempre superiore al 12% e negli ultimi dieci superiore al 20%. Nei referendum i numeri sono immancabilmente più bassi: persino in quello storico del 1974 sul divorzio non si presentò il 12% degli elettori e in quello del 1981 sull’aborto non si presentò il 21%. Nell’età Renzi la disaffezione della gente ha raggiunto livelli allarmanti (ma non per il Pd, che sopravvive solo grazie a essi): più del 41% alle europee, quasi il 50% alle regionali in Sardegna e più del 60% a quelle in Emilia. Ciò evidentemente significa che chi di questi tempi usi l’astensione come un voto a suo favore può contare su un automatico premio di almeno il 20%: in sostanza per vincere gli basta ottenere il 31%, spesso molto di meno, mentre all’opposizione serve il 51%. E questa la chiamate democrazia?
Un ultimo esempio. La legge italiana vieta di divulgare i risultati degli exit poll prima della chiusura delle urne. Ma il 17 aprile i media di regime hanno ossessivamente informato la popolazione sulle percentuali dei votanti: già da mezzogiorno hanno fatto sapere che il quorum non sarebbe stato raggiunto e che, sulla base dei precedenti, non era raggiungibile. Ovvio che chi era ancora incerto si sia rapidamente persuaso che non valesse la pena recarsi alle urne, cinque ore dopo che avevano aperto e undici ore prima che chiudessero. E questa la chiamate democrazia?
La giornata d’uno scrutatore dovrebbe essere ancora letto, anzi, più di prima (è disponibile negli Oscar Mondadori), per capire come la sfera pubblica e quella privata inevitabilmente si intrecciano e scontrano e tuttavia non debbano né confondersi né soppiantarsi. Nel 1963, quando lo pubblicò, Calvino probabilmente pensava che era il privato a correre i maggiori pericoli. Oggi è il pubblico a essere debole e marginale. È in corso un gravissimo attacco alla democrazia: per salvarla, se ci interessa salvarla, non c’è che la strada delle regole, della legalità, dell’intransigenza.