Sono giorni di forte scontro al Congresso USA. A dividere come non mai le forze politiche è questa volta la rimozione e sostituzione dell’Affordable Care Act (la riforma sanitaria di Obama) che potrebbe peggiorare sensibilmente la condizione di milioni di cittadini statunitensi e rivelarsi il primo grande fallimento del presidente Trump di fronte al suo elettorato.
Altro che fantomatici 007 russi, tweet, o infondate accuse di spionaggio lanciate dal tycoon. In questo caso, a dominare la scena c’è qualcosa di molto più concreto e importante, cioè la salute dei cittadini americani.
L’accesissimo dibattito di queste ore ripropone uno dei temi più controversi e spinosi dell’America moderna: quello sulla sanità. A differenza di tutto il mondo industrializzato, infatti, gli USA ancora oggi non garantiscono ai propri cittadini un diritto universale alla salute. Il sistema rimane ostaggio delle compagnie assicurative private e dell’industria farmaceutica, lasciando milioni di persone fuori dalla copertura sanitaria e costringendo tutti gli americani a pagare i prezzi più alti al mondo per i propri medicinali.
Il problema va dunque al di la dei giudizi sul nuovo esecutivo mettendo sul banco degli imputati l’intera classe politica a stelle e strisce. Per capirlo a fondo dobbiamo abbandonare per un attimo il clima da campagna elettorale permanente e ripercorrere la storia del cosiddetto Obamacare.
Una riforma repubblicana. Quando approvò l’Affordable Care Act, nel 2010, Barack Obama si trovava in una condizione di forza: sia la Camera sia il Senato erano allora a maggioranza democratica, e la legge fu considerata da molti come uno dei maggiori successi della nuova amministrazione. Oltre ad allargare la copertura sanitaria a larghe fasce della popolazione che prima ne erano escluse, le norme introdotte prevedevano obblighi sia in capo alle compagnie assicurative (le quali non potevano più rifiutarsi di offrire copertura ai soggetti più deboli) sia in capo ai cittadini, costretti a dotarsi di una polizza a determinate condizioni, pena, in alcuni casi, la sanzione.
Ne venne fuori un piano di sussidi bizantino e lacunoso, paradossalmente molto più dispendioso per lo stato di quanto non sarebbe stata l’introduzione di un sistema sanitario nazionale. Ben lungi dal garantire una copertura universale, la riforma costringeva il governo a sborsare per le spese sanitarie una percentuale del Pil crescente nel tempo di gran lunga maggiore (si parla di 6 punti in più del Canada e di quasi 10 punti rispetto alla media UE) rispetto a paesi con una sanità pubblica ben più efficiente. Non si trattava poi di un piano inserito nel solco della tradizione del partito democratico, ma al contrario era mutuato quasi interamente da quanto elaborato fino ad allora in campo repubblicano.
A guardarlo nel dettaglio l’Obamacare ripropone infatti in maniera quasi identica la legislazione introdotta nel 2006 dall’allora governatore del Massachusetts Mitt Romney, prendendo inoltre spunto dalle teorie elaborate all’inizio degli anni ’90 dal think thank conservatore Heritage Foundation, alternative al fallito tentativo di riforma proposto allora dal presidente Bill Clinton.
Una circostanza, questa, che se da un lato ci illumina sull’opposizione ipocrita e strumentale del GOP rispetto al provvedimento, dall’altro ci spiega perché, in più di sette anni, i conservatori non siano stati capaci di proporre alcuna alternativa valida all’Affordable Care Act. Insomma, mentre l’establishment dell’asinello scopiazzava un piano del Grand Old Party, i repubblicani si opponevano alla…loro riforma. Più in generale, l’intero spettro politico americano scivolava verso destra.
La situazione attuale. Di fronte a tali evidenti lacune, durante la campagna elettorale i due candidati “populisti”, Bernie Sanders e Donald Trump, non hanno mancato di prendere posizione sul tema della sanità. E se Bernie proponeva l’allineamento degli USA a un sistema “single payer” simile a quello europeo, venendo per questo sbeffeggiato da quasi tutta la stampa mainstream (sic!), Trump si limitava, in modo ben più superficiale, a dire che l’Obamacare era un “disastro totale”, promettendo di rimpiazzarlo con “qualcosa di meglio”, rassicurando al contempo che “nessuno sarebbe più morto per strada” per mancanza di cure sanitarie e discostandosi così (seppur in modo rozzo) dalle prospettive da macelleria sociale dei suoi colleghi del GOP.
Una volta eletto, però, il tycoon si è ritrovato vittima della sua stessa ignoranza, lasciando in mano la questione alla dirigenza repubblicana. Così, in questi giorni il capogruppo alla Camera Paul Ryan se n’è uscito con un disegno di legge draconiano che lascia tutti scontenti, introducendo a detta degli esperti costi maggiori e minori garanzie per il pubblico. In campo conservatore, falchi alla Rand Paul la considerano ancora un Obamacare “alla leggera”, mentre lo stesso Trump sembra volersene lavare le mani, lasciando la patata bollente in mano al Grand Old Party. Si preannuncia un lungo scontro al Congresso, ma con ogni probabilità, per i cittadini statunitensi, l’epilogo sarà un provvedimento molto peggiore dell’Affordable Care Act.
Lobby trasversale. Dal canto loro, i democratici proveranno a fare una dura opposizione, ma anche se in modo meno evidente rispetto agli avversari conservatori, anche la dirigenza dem è ostaggio delle lobby farmaceutiche e delle compagnie assicurative. Un esempio in merito lo abbiamo avuto la sera dell’11 gennaio scorso. In quell’occasione, Bernie Sanders propose al Senato un emendamento importantissimo in materia di sanità.
In breve, il provvedimento in questione avrebbe introdotto un meccanismo di importazione di medicinali dal Canada, consentendo di calmierare i costi a carico delle famiglie americane aggirando il ricatto imposto dalle compagnie farmaceutiche al governo, impossibilitato per legge a trattare il loro prezzo (altra anomalia americana rispetto al resto del mondo industrializzato).
Il risultato della votazione al senato ha avuto dell’incredibile. Mentre l’emendamento ha ricevuto l’inaspettato supporto di 13 repubblicani, tra cui Ted Cruz (sic!), ad affossarlo è stata una pattuglia di 12 democratici, guidati da Cory Booker. Senatore del New Jersey (guarda caso lo stato sede di numerosi giganti dell’industria farmaceutica, tra cui Johnson & Johnson e Actavis) Booker è considerato dall’establishment democratico come uno dei politici più promettenti del partito, e molti lo ricordano come uno dei maggiori animatori della Womens March successiva all’inaugurazione di Trump.
Mentre mostrava il profilo migliore ai grandi network con infiammati discorsi sull’equal opportunity, sui diritti delle donne e sul futuro delle nuove generazioni, sperando di preparare il terreno per la candidatura alle presidenziali del 2020, il buon Cory ha intascato infatti ben 276,138 dollari dalle lobby farmaceutiche, risultando tra i maggiori beneficiari di tali contributi.
Un vero record, che lo pone tra i primi “amici” dell’industria farmaceutica in tutto il Congresso. Ovviamente, seppur in misura minore, anche gli altri dem contrari all’emendamento sono risultati “collusi”.
Per fortuna, però, nell’era di internet e dei social media, Booker non è riuscito a sfuggire alle ire della base progressista e sanderiana del partito, che lo ha elevato giustamente a simbolo assoluto dell’ipocrisia e del doppiogiochismo imperante a Washington.
Insomma, sulla questione della sanità emerge un quadro desolante, in cui la politica è ostaggio di interessi economici opposti a quelli degli elettori. E fino a quando gli States non riformeranno il sistema di finanziamento dei partiti, è difficile che cambi qualcosa.
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