“Come si cambia, per non morire”, cantava qualcuno in Italia. E il ritornello in questione sarebbe perfetto per Donald Trump, che nella prima intervista da Commander in Chief messa in onda domenica da CBS News sembra aver dismesso i panni del bullo indossati in campagna elettorale trasformandosi improvvisamente in un “normale” presidente eletto.
“Ho capito che questa per me sarà una vita completamente diversa”, confessa a Lesley Stahl, blanda intervistatrice di 60 Minutes, quasi fosse pentito delle irripetibili magagne combinate nell’ultimo anno. Il tono è insolitamente pacato per gli standard sfoggiati dal magnate, e anche nella sostanza, a dir la verità, il tycoon ha rettificato alcuni (non tutti) punti del proprio programma, smussandone gli aspetti maggiormente controversi.
Qualche esempio? Pur mantenendo come priorità la costruzione del muro sulla frontiera col Messico (prevedendo anche parti non in muratura), The Donald ha parlato di deportazione solo con riguardo agli immigrati che hanno commesso dei crimini (affermando che sarebbero tra due e tre milioni, mentre prima il piano era rivolto a tutti gli undici milioni di illegali), mentre su temi come aborto o future nomine della Corte Suprema si è dimostrato rigido, attestandosi su posizioni fortemente conservatrici ma dicendosi favorevole al riconoscimento dei diritti delle coppie omosessuali.
Quando poi ha dovuto esprimersi sugli ex nemici Obama e Clinton, il magnate si è profuso in complimenti impensabili appena una settimana fa: il presidente uscente, che prima era “il fondatore dell’ISIS”, è ora “persona di grande intelligenza”; la sua riforma sanitaria non è più tutta da buttare, ma ha delle parti che possono essere mantenute; le minacce fatte a Hillary durante il secondo dibattito presidenziale (nel quale aveva promesso di nominare uno special prosecutor per incriminarla) sono di fatto ammorbidite: “Lei e Bill sono brave persone”. Alla domanda ma li farà processare? “Ho tante altre urgenze che si devono affrontare…”. Che in fondo siano rimasti amici? Potrebbe farlo pensare una ulteriore rivelazione di Trump alla giornalista della CBS, quando dopo aver risposto sulla telefonata ricevuta da Hillary la notte della vittoria elettorale, ha aggiunto: “Anche Bill mi ha chiamato, il giorno dopo, per congratularsi con me…”.
Certo, i 60 minuti di intervista, nella quale sono intervenuti anche tutti i figli (tranne il piccolo Barron) e la moglie Melania, sono stati superficiali e l’intervistatrice ha accuratamente evitato di soffermarsi su alcune questioni fondamentali che avrebbero potuto mettere in serio imbarazzo Trump. Non un accenno alle strampalate teorie del tycoon sul cambiamento climatico (considerato un’invenzione dei cinesi) né una parola sulle dichiarazioni con cui tempo fa sembrava pronto a smantellare il Primo Emendamento della Costituzione, in uno dei rigurgiti illiberali della propria campagna.
Chiamato in causa su recenti episodi di xenofobia perpetrati da alcuni suoi supporter, Trump ha condannato i responsabili (rivolgendosi alla telecamera ha rimproverato: “Don’t do it!”), invitando alla calma ma non pentendosi della propria strategia comunicativa, che in molti casi sembrava incitare alla violenza: “Certe volte c’è bisogno di una certa retorica per motivare le persone” ha dichiarato. “Non abbiate paura”, ha infine detto ai manifestanti che continuano a sfilare in molte grandi città americane, “datemi tempo”.
Insomma, nei primi giorni dopo la vittoria il tycoon pare aver preso sul serio il gravoso peso della presidenza.
Sarà davvero un’altra persona nei prossimi quattro anni? Se lo chiedono in molti, e pensando all’estrema mutevolezza trumpiana nessuno può ancora rispondere con certezza.
Non basta un’intervista per fare un presidente.