Potrà recitare la parte di un “normale” candidato alla presidenza per 90 minuti di fila?
Era questa la domanda che ci eravamo chiesti su Donald J. Trump alla vigilia del dibattito in tv andato in scena lunedì sera. La risposta, alla fine di uno dei confronti più singolari della storia politica recente, è un sonoro “hell no!”, come direbbero qui negli States.
Eppure, fino a pochi minuti prima di salire sul palco della Hofstra University tutto sembrava favorire il tycoon: dal trend degli ultimi sondaggi alle bassissime aspettative dei media, pronti a dichiararlo vincente se solo avesse dimostrato un livello minimo di competenza, magari buttando sul tavolo qualche proposta politica. Hillary Clinton, dal canto suo, non ha dovuto faticare molto per mettere KO il suo avversario: le è bastato seguire le indicazioni dei propri spin doctor, lanciare qualche frecciatina al rivale e lasciare infine che lo stravagante magnate si esprimesse a ruota libera, deragliando come un treno in corsa senza nemmeno rendersene conto.
Ma se l’esito finale del dibattito è stato a detta di tutti gli osservatori nettamente favorevole alla ex first lady, nel corso del primi venti minuti la candidata democratica deve aver sudato freddo. Nella parte iniziale del confronto, infatti, è Trump a caricarla ripetutamente sull’economia, uno dei punti forti del messaggio populista trumpiano soprattutto in stati come Ohio e Michigan (tanto per citarne alcuni), i quali negli anni hanno pagato le conseguenze delle politiche economiche neoliberiste in termini di salari e occupazione. Con una serie di efficaci bordate, Donald ricorda così l’appoggio dato dalla rivale ad accordi di libero scambio come il NAFTA negli anni ’90, rimprovera le sue palesi ambiguità rispetto all’impopolare TPP (prima sponsorizzato e solo recentemente criticato), la accusa di non avere fatto nulla per risolvere la crisi del settore manifatturiero.
Nel far ciò gioca la parte dell’outsider in grado di sistemare i disastri combinati dalla classe politica, promettendo di rinegoziare i trattati e di siglare accordi favorevoli con Cina e Messico, dipingendo l’avversaria come l’incarnazione dell’establishment tutto chiacchiere e distintivo. E all’inizio la tattica di Trump sembra funzionare alla perfezione: Hillary è ancora troppo robotica, cerca di rispondere spiegando la sua posizione e incassa le numerose interruzioni del tycoon, che la provoca continuamente con l’obiettivo manifesto di confonderla.
Poi però, come un toro alla vista del drappo rosso, proprio il colore del vestito indossato da Hillary, il milionario comincia sragionare se punto sul vivo, per esempio quando la Clinton inizia a punzecchiarlo sul suo discutibile modo di fare business e di trattare gli impiegati delle sue aziende. A quel punto il dibattito prende una brutta piega per The Donald, che si esprime “senza filtro” travolto dalla sua stessa confusa logorrea e finendo spesso fuori pista. Così, in un mix di attacchi sconnessi e frasi improvvisate, continua imperterrito ad auto complimentarsi per i propri “tremendi successi” imprenditoriali, accusa l’avversaria di “starsene a casa” mentre lui è “stato dappertutto”, e come un fiume in piena tenta di imporsi con arroganza perfino sul povero moderatore Lester Holt, che prova timidamente a precisare ogni tanto le inesattezze del magnate. Chi si aspetta il “Trump presidenziale” si ritrova davanti il solito “Trump dei comizi”, incapace di approfondire i punti del proprio programma o di dare soluzioni politiche soddisfacenti.
Dal canto suo, la Clinton sembra avere seguito alla lettera l’ormai noto motto di Corey Lewandowski, ex campaign manager dell’avversario: “Let Trump be Trump”. Con il minimo sforzo riesce in tal modo a raggiungere il fine che si era preposta in queste settimane, cioè far emergere le intemperanze e la scarsa preparazione del milionario.
In molti casi la ex first lady lancia veloci stilettate per provocarlo, in altri risponde a tono silurandolo, come quando il tycoon la accusa ripetutamente, con fare un po’ cafone, di non possedere la necessaria forza fisica per reggere allo stress della presidenza. La risposta della Clinton è micidiale: “quando viaggerà in 112 paesi e negozierà un trattato di pace, un cessate il fuoco, un rilascio di dissidenti, l’apertura di nuove opportunità in nazioni del mondo, o persino quando renderà una testimonianza di 11 ore di fronte a un comitato del Congresso, allora [il mio rivale ndr] potrà parlarmi di stamina”.
Dopo essersi allenata per settimane con finti dibattiti, Hillary sa bene come “accendere la miccia”, magari citando direttamente frasi pronunciate in passato da The Donald, e per il resto fa tutto lui. Sono numerosi i frangenti in cui il magnate indugia in accuse alla rivale su varie questioni, dal cosiddetto “birtherism” (ovvero sulla teoria secondo cui il presidente Obama non sarebbe nato negli USA) all’accordo sul nucleare iraniano, dalle controverse mail (con cui guadagna un applauso dai suoi supporter) alle problematiche razziali. Ma il risultato finale appare quasi sempre confuso e controproducente, perché le sue sparate sono incontrollate e spontanee e non figlie di una precisa strategia, posseduta invece dalla Clinton. Riguardando i suoi interventi si ha la chiara impressione che sia stata Hillary a dominare il dibattito, “manipolando” il tycoon in molti passaggi senza che questi se ne accorgesse.
Non mancano, ovviamente, scenette paradossali e divertenti, che portano persino il pubblico a ridacchiare rompendo il rigidissimo protocollo previsto in occasione dei dibattiti presidenziali. Un esempio? Dopo una serata passata a interrompere e ad andare fuori giri, Trump si lancia in uno sperticato elogio del proprio carattere, affermando che si tratta di uno dei suoi… punti di forza (sic) e accusando Hillary di non sapersi controllare.
Insomma, peccando di ubris, il magnate ha sottovalutato l’evento, evitando di studiare e confidando eccessivamente nelle proprie doti di intrattenitore con risultati deludenti.
Adesso dovremo attendere i sondaggi dei prossimi giorni per vedere gli effetti concreti del dibattito sull’elettorato. Guai però a dare per spacciato il tycoon prima del tempo: Hillary ha vinto per ora un’importante battaglia, non certo la guerra.