Qualche settimana fa abbiamo intervistato Eugenio Marino, responsabile del Pd per gli italiani nel mondo. Rimaniamo sempre nel mondo della politica ed incontriamo Fabio Porta, parlamentare eletto nella circoscrizione Estero dell’America Meridionale. Attualmente è anche componente della III Commissione Permanente Affari Esteri e Comunitari e Presidente del Comitato permanente italiani nel mondo e promozione del sistema paese. Con lui parliamo di tanti temi: della sua carriera politica, della comunità degli italiani in Brasile e nel mondo, di nuove iniziative per i consolati e le scuole, di parlamentari italici e di molto altro. Poi scopro che è un sociologo e questo rende il tutto ancora più interessante.
Innanzitutto, ci può spiegare come arriva ad essere un deputato nel Parlamento italiano eletto nella circoscrizione del Sudamerica? Qual è stato il percorso che ha intrapreso?
“Sono nato in Sicilia e ho fatto gli studi universitari a Roma, nel periodo in cui ero anche responsabile nazionale degli studenti di Azione Cattolica. Laureato in Sociologia, ho iniziato a lavorare nel sindacato occupandomi fin dall’inizio di emigrazione ed immigrazione; nel 1994 mi fu chiesto di seguire un progetto di formazione in Brasile e nel 1995 mi sono trasferito a San Paolo, dove ho conosciuto mia moglie e sono nate le mie due figlie. In Brasile ho scoperto la straordinaria realtà della comunità italo-brasiliana, una delle più grandi del mondo. Grazie al mio impegno nel patronato Ital-UIL ho potuto conoscere non solo la realtà brasiliana ma anche quella di tutto il Sudamerica; nel 2004 sono stato eletto consigliere del ComItEs di San Paolo e nel 2008 deputato per la ripartizione America Meridionale della Circoscrizione Estero. Rieletto nel 2013 per un secondo mandato, grazie ad un grande consenso che ha fatto praticamente raddoppiare i miei voti che sono passati da 16.000 a 30.000″.
Lei ha vissuto a lungo a San Paolo, Brasile, probabilmente una delle città nel mondo con più oriundi italiani. La sintesi è lavoro duro, ma riesce in breve a descrivere la comunità italiana?
“Una comunità eterogenea, stratificata. La grande emigrazione arrivò in Brasile alla fine dell’800 e agli inizi del ‘900, prevalentemente dalle regioni del Nord-est d’Italia. Questo flusso non si è praticamente mai fermato, sia pure subendo rallentamenti e non assumendo mai le dimensioni dell’esodo della prima ondata. C’è stata un’emigrazione nel secondo dopo-guerra, questa volta dalle regioni dell’Italia meridionale, ed infine una emigrazione più recente, cresciuta a seguito della crisi italiana degli ultimi decenni ma poi diminuita a causa questa volta della più recente crisi economica brasiliana. Tornando alle caratteristiche della comunità italiana, voglio comunque sottolinearne non solo le grandi dimensioni (gli italo-discendenti sono stimati in oltre 30 milioni di persone) ma anche il dato qualitativo: la storia, l’economia, la cultura brasiliana sono fortemente impregnate di italianità; ciò è evidentissimo a San Paolo e nel sud del Brasile ma, in modi e intensità diverse, praticamente in tutto il Paese”.
In questo periodo si sta occupando di due temi molto importanti: uno è la possibilità di rendere più efficienti i servizi dei consolati italiani, l’altro è lo studio dell’emigrazione nei programmi scolastici. Ce ne può parlare? A che punto siamo?
“La ringrazio per la domanda: effettivamente sono forse i due temi che mi stanno più a cuore. Apparentemente distanti e diverse tra loro, sono due tematiche strettamente connesse. Parto dalla mia proposta di legge sull’insegnamento multidisciplinare delle migrazioni nelle scuole: fino a quando infatti l’Italia non riacquisterà una piena coscienza delle dimensioni e dell’importanza che hanno avuto i processi migratori nella storia del Paese, non solo sarà difficile mettere in atto qualsiasi progetto di accoglienza dei migranti in Italia ma sarà praticamente impossibile (o sicuramente difficile) valorizzare appieno il potenziale costituito oggi dalle nostre collettività residenti all’estero. Voglio poi sottolineare la multidisciplinarietà del progetto: le migrazioni sono un fenomeno non solo storico, ma economico, geografico, letterario e così via; una ‘cartina di tornasole’ delle trasformazioni del mondo nel corso dei secoli. Anche la mia proposta di trasferimento di risorse ai servizi consolari segue la stessa logica: gli italiani nel mondo sono una risorsa in grado di dare risposte concrete anche al miglioramento dei servizi ad essa destinati. Mi spiego: nel corso del 2016 soltanto le domande di riconoscimento di cittadinanza italiana all’estero (in gran parte provenienti dal Sudamerica) hanno portato nelle casse dello Stato italiano oltre dieci milioni di euro. Se queste risorse fossero trasferite ai consolati che le hanno incassate avremmo come risultato non soltanto la fine delle lunghe e antipatiche attese (in Brasile si è arrivati a circa 10 anni per un riconoscimento di cittadinanza!) ma anche il rafforzamento dei servizi consolari in termini di efficienza e funzionalità”.
Lei è un sostenitore dei temi dell’italicità, che opinione si è fatto su questo nel suo girovagare continuo nel mondo?
“Ringrazio Piero Bassetti e quanti hanno promosso negli ultimi anni una grande riflessione sul tema dell”italicità’; non solo sono un sostenitore appassionato di questa tesi, sono altresì convinto che solo una nuova strategia politica fondata sulla valorizzazione degli italici possa dare vita a quella svolta nelle politiche per gli italiani all’estero e l’internazionalizzazione che chiediamo a gran voce da anni. Gli ‘italici’ infatti sono un popolo ben più ampio degli italiani con passaporto o anche degli stessi italo-discendenti; parliamo di un popolo di alcune centinaia di milioni di persone alle quali guardare con interesse e lungimiranza per dare forza e continuità ad un grande progetto di rafforzamento della presenza italiana nel mondo. Anche l’italicità è un concetto plurimo, non inquadrabile in un’unica categoria; si interfaccia con la musica, la lingua, la politica, la cultura, l’economia e lo sport, solo per fare alcuni esempi. Un progetto ‘italico’ presuppone in primo luogo un salto di qualità culturale, prima ancora che politico, da parte delle nostre istituzioni. Si è troppo spesso visto il rapporto Italia-italiani nel mondo in maniera unilaterale, se non addirittura assistenzialistico e clientelare; occorre passare ad un modello ‘circolare’, dove il rapporto Italia-italicità sia di feconda e reciproca collaborazione. Facendo una piccola autocritica, credo che anche il tanto atteso ‘voto degli italiani all’estero’ (dei quali quest’anno celebriamo il decennale) non abbia saputo, o voluto, cogliere in pieno questa dimensione, spesso confinato nel piccolo – e forse comodo – bacino politico-elettorale rappresentato dalle collettività tradizionali organizzate nel circuito classico di associazioni, ComItEs, patronati. L’italicità, invece, è molto di più, e se avessimo il coraggio di investire su un grande programma che la mettesse al centro delle nostre politiche di internazionalizzazione potremmo averne in cambio un beneficio che non dubito si tradurrebbe in un incremento del PIL di almeno 1% all’anno”.
Nella politica italiana ci sarà mai spazio per un ruolo determinante anche per un italico in futuro?
“Dipenderà dalla forza di questo progetto e dall’intelligenza dei politici italiani, soprattutto di chi ci governa. Sono ottimista e fiducioso e, ripeto, lo sono in maniera particolare perché convinto che è nell’interesse dell’Italia aprirsi a questo universo straordinario costituito dagli “italici”, il vero “petrolio” di un Paese con poche risorse naturali ma ricco di un capitale (l’italicità, appunto) che nessun altra grande potenza al mondo può vantare. Si tratta in questo caso di un lavoro bidirezionale: da una parte noi, gli “italici” a vario titolo, che dobbiamo essere in grado di promuovere reti di collegamento e promozione delle variegate forme di presenza nel mondo di questa risorsa; dall’altra parte le istituzioni italiane, ai suoi vari livelli, che dovrà smetterla di guardare con vecchi stereotipi o cliché ad una italianità che nel mondo si declina in accezioni e sfumature che troppo spesso abbiamo dimenticato di osservare con la dovuta attenzione. Nel mio ruolo di presidente del Comitato italiani nel mondo e promozione del sistema paese della Camera dei Deputati posso dare un contributo proprio nella ricerca di un raccordo tra questi due estremi che spesso non sono riusciti a trovare una sintesi virtuosa e costruttiva. Il progetto ‘italici può sicuramente costituire una piattaforma per la formazione di una nuova leadership italica nel mondo; negli ultimi mesi ho avuto modo di rendermi conto in prima persona che questo processo è già iniziato e sono sempre più le persone o i progetti ispirati a questo nuovo modello di valorizzazione dell’Italia e dell’italianità all’estero”.
Secondo lei i politici eletti all’estero si adeguano ai sistemi italiani di far politica o sono anche in grado di portare utili cambiamenti?
“Non esistono i ‘politici eletti all’estero’; attualmente abbiamo in Parlamento 18 parlamentari eletti all’estero, dodici alla Camera e sei al Senato. Non sono in grado, né sarebbe giusto, generalizzare. Tra questi politici ce ne sono alcuni che esercitano in maniera intelligente e innovativa questo ruolo di rappresentanza e raccordo e altri che, come dicevo prima, hanno preferito probabilmente cavalcare i vecchi modelli del rapporto dell’Italia con le sue collettività all’estero. C’è poi anche un problema nella politica italiana, che a volte fa fatica a vedere negli eletti all’estero non soltanto i portatori di valori e interessi propri delle nostre grandi collettività, ma anche utili e preziosi terminali dell’apertura dell’Italia al mondo e del suo necessario rapporto con i Paesi dai quali provengono gli eletti all’estero. Come gli italiani che vivono nel mondo infatti, anche noi eletti all’estero siamo portatori di una ricchissima identità, arricchitasi nel corso degli anni grazie all’apporto di altre lingue e culture e alla nostra unica e irripetibile esperienza di cittadini totalmente immersi nelle realtà dei nostri Paesi di residenza. La politica italiana può sicuramente trarre un beneficio diretto e tangibile dalla nostra esperienza; sta ovviamente anche a noi fare valere l’originalità di tale apporto e spero che quanto prima non solo in Parlamento ma anche nel Governo gli ‘italici’ saranno in grado di offrire il proprio contributo al Paese”.
Ci racconta un episodio, oppure più di uno, divertente al quale ha assistito che racconta emblematicamente come viene rappresentata l’Italia fuori d’Italia?
“Non so se l’episodio è divertente o meno. Ricordo benissimo, pochi mesi dopo la mia elezione in Parlamento, il giorno del mio primo emozionato intervento nell’aula di Montecitorio. Preparai meticolosamente quel discorso e parlai a lungo, dati alla mano, del fondamentale apporto che gli italiani nel mondo potevano dare alla ripresa economica dell’Italia. Citai statistiche e studi, parlai di come gli italiani in Sudamerica erano oggi ai vertici della politica e delle imprese di quei Paesi. Alla fine del mio intervento mi avvicina un collega e, dopo avermi fatto i complimenti di rito, mi chiede notizie su… Ronaldinho e su alcuni altri giocatori di calcio brasiliani: lo guardai sorridendo e gli risposi con una battuta; tornai a casa triste e deluso perché ancora una volta toccavo con mano come chi vive all’estero spesso viene considerato più per il folklore e l’aneddotica legata ai nostri Paesi di residenza che per il grande apporto che possiamo dare allo sviluppo dell’Italia”.
Per concludere, secondo lei perché gli italiani in Italia si disprezzano così tanto mentre fuori dai confini nazionali la amano molto di più?
“Lo dico spesso, e anche i politici italiani che incontrano le nostre collettività all’estero ne hanno avuto spesso riprova: noi italiani nel mondo amiamo molto di più l’Italia di tanti italiani che vivono dentro i confini nazionali. Non solo; in questi anni ho avuto l’impressione che dall’estero si vedano e giudichino meglio anche tante questioni di politica interna italiana, che spesso chi vive in Italia vive e affronta senza quel necessario distacco a volte necessario per dare una valutazione oggettiva e distaccata. Faccio l’esempio del referendum sulle riforme istituzionali: in Italia è diventato un terreno di scontro politico, una resa dei conti dentro e tra i partiti, un voto sul governo Renzi e non una scelta a favore o contro una proposta già approvata dal Parlamento e ora sottoposta agli elettori. Ecco, sono certo che gli italiani all’estero, se adeguatamente informati sulla materia oggetto del referendum, saranno in grado di esprimere un giudizio più pacato e oggettivo. Un giudizio che terrà conto del merito della questione e di ciò che è in gioco per il futuro del Paese. E in questo senso, anche se questo è il mio auspicio personale e non è oggetto di quest’intervista, sono certo che esprimeranno in maniera massiccia il loro SI al quesito referendario”.