“Cosa avete da perdere?”. Era con questa frase, pronunciata il 19 agosto in un comizio in Michigan e rimbalzata su tutti i media, che Donald Trump aveva iniziato a rivolgersi direttamente alla comunità nera e a quella ispanica chiedendone il voto.
Nell’ultima settimana, tra mille contraddizioni, il tycoon ha perseverato su questa scia con insistenza, tra meeting ufficiali e continui appelli alle minoranze lanciati dal palco dei suoi comizi. Un corteggiamento culminato con l’incontro tra The Donald e il presidente messicano Enrique Peña Nieto e con la visita di sabato nella chiesa nera di Detroit, che ad appena 64 giorni dall’electron day appare difficile: la popolarità di Trump presso queste fasce di elettorato è infatti bassissima e fin dall’inizio delle primarie repubblicane il magnate non ha fatto nulla per migliorare sua immagine, definendo in modo sprezzante la popolazione ispanica, proponendo un piano di deportazione di massa di 11 milioni di immigrati e non rigettando il sostegno ricevuto da gruppi apertamente razzisti e personalità come David Duke, ex leader del Ku Klux Klan.
Insomma, anche se il tentativo tardivo di ingraziarsi l’elettorato ispanico e nero è ancora in corso, verosimilmente non c’è da aspettarsi un’impennata nei sondaggi.
Gli esiti immediati degli ultimi due eventi sono poi stati di tenore opposto. A Detroit, in cui è stato accompagnato dall’ex rivale e ora stretto collaboratore Ben Carson, il tono del breve intervento di Trump è stato particolarmente conciliante: “per secoli, la chiesa afro americana è stata la coscienza del nostro paese” ha detto, citando persino Lincoln e affermando di comprendere pienamente le discriminazioni sofferte dalla comunità nera, che ha promesso di includere nel suo grande (e generico) piano di crescita economica.
Mercoledì, invece, la visita di Trump in Messico ha subito un rovescio inaspettato, e dopo aver gestito bene il dialogo con Peña Nieto, appena rimesso piede in America Trump ha mandato tutto all’aria in un comizio tenuto in Arizona, nel quale ha ribadito la necessità di una deportazione di massa scatenando poi una polemica via twitter con il presidente messicano su chi dovesse pagare per il famigerato muro sul confine.
Se tra gaffe, zig zag e un implacabile conto alla rovescia gli sforzi di Trump potrebbero risultare vari, per sperare di vincere a novembre il tycoon ha bisogno di allargare la base del suo consenso, cercando di strapparsi di dosso l’etichetta di razzista e pericoloso estremista uscendo dall’isolamento nel quale sembra essersi cacciato.
Il gap di Trump con le minoranze, a ben vedere, non è però solo dovuto al suo incorreggibile temperamento e alle proprie imperdonabili sparate, ma va ricercato nella storia recente delle elezioni americane e nei mutamenti demografici che hanno coinvolto gli USA negli ultimi quarant’anni, ponendo fine al successo di alcune delle strategie con cui il partito repubblicano era riuscito nei decenni a conquistare la Casa Bianca. Dai tempi di Nixon, il cui staff lanciò la cosiddetta Southern Strategy fidelizzando la maggioranza bianca del Sud un tempo democratica, il blocco dei votanti sui quali il GOP ha fatto affidamento è stato quello bianco maschile, il quale nel corso del tempo ha rappresentato una percentuale sempre minore dell’elettorato totale negli USA. Basti pensare che nel 1976 i bianchi rappresentavano quasi il 90% dei votanti, mentre nel 2012 la percentuale è arrivata intorno al 71%. E se a Reagan bastava il 56% del voto bianco per vincere nettamente nel 1980 (conquistando ben 44 stati), a Mitt Romney non è stato sufficiente il 59% per prevalere su Obama nel 2012. Di fronte alle scarse performance di Trump con le minoranze, al tycoon servirebbe il supporto di 7 elettori maschi bianchi su 10 per poter prevalere.
In maniera parallela, l’incidenza delle minoranze (compresa quella asiatica) nello stesso periodo è più che raddoppiata, passando dal dal 12% al 28%. In breve, per sperare di sedere nello Studio Ovale bisogna aumentare l’appeal tra latinos e afro americani (i due gruppi etnici più consistenti), altrimenti la percentuale del voto bianco da catturare diventa proibitiva.
Nel corso della storia recente, ovviamente, ci sono stati candidati repubblicani in grado di ridurre il tradizionale svantaggio del loro partito con le minoranze, come quello di George W. Bush, il quale con la formula del cosiddetto “conservatorismo compassionevole” e un’agenda politica non troppo dura sull’immigrazione, nel 2004 guadagnò le simpatie di una percentuale altissima dei votanti ispanici, pari al 44%.
Già durante l’esperienza politica in Texas, George W. e i suoi più stretti collaboratori (tra cui Karl Rove) si erano intelligentemente accorti dell’impatto della popolazione ispanica e provarono a spingere per un’agenda politica in grado di venire incontro ai latinos.
Quello di Bush nel 2004 fu un record mai più eguagliato, e sulla scia delle batoste del 2008 e del 2012 la discussione sul rapporto con la minoranza ispanica all’interno del GOP riprese con forza, tanto che alcuni dei nuovi volti del partito (come Marco Rubio) si fecero portavoci di una svolta sulle politiche di legalizzazione degli immigrati, salvo poi fare marcia indietro più volte.
Paradossalmente, tra i candidati alle primarie repubblicane personaggi come Jeb Bush e lo stesso Marco Rubio sembravano godere di simpatie tra i latinos, ma si sono rivelati un disastro nel comprendere il disagio della working class bianca: tutto il contrario di Donald Trump, che ha invece spopolato tra i bianchi ma è stato sempre impopolare tra le minoranze.
Se il voto degli ispanici è stato negli ultimi tempi nelle mire del GOP, l’affiliazione politica degli afro americani, dopo l’approvazione del Civil Rights Act da parte di Lyndon Johnson nel 1964, è nettamente orientata verso il partito democratico, e i conservatori faticano a guadagnarne le simpatie.
Insomma, le ultime mosse di Donald Trump sono solo la punta dell’iceberg: se in futuro vuole tornare alla Casa Bianca, il GOP deve abbandonare la Southern Strategy, ormai superata, e trovare qualcosa di più efficace.