Mancano ancora più di due mesi al fatidico election day, eppure ogni giorno siamo sommersi da uno tsunami di notizie, gossip e indiscrezioni su chi potrà spuntarla a novembre. Tra sondaggisti, opinionisti o semplici tifosi travestiti da giornalisti, ognuno vuole dire la sua, lanciandosi in improbabili previsioni a favore dell’uno o dell’altro candidato. Di chi fidarsi? Perché, alla fine, la maggior parte del pubblico è costretta a consegnarsi mani e piedi al proprio anchorman preferito, che molto spesso sbaglia puntualmente le sue analisi, come nel caso dell’inaspettato successo di Trump alle primarie.
Per permettere a tutti di orientarsi con un minimo di autonomia in queste pazze elezioni presidenziali abbiamo selezionato alcune incognite, che, combinate insieme, a partire da settembre potranno darci un’idea più chiara su quale dei candidati ha migliori chance di prevalere sull’altro. Eccole.
I dibattiti televisivi. Gli attesissimi faccia a faccia tra i candidati avranno come sempre un impatto fondamentale, permettendo alla stragrande maggioranza dell’elettorato di confrontare in tempo reale le personalità di Clinton e Trump. Quest’anno, salvo sorprese, si terranno 3 dibattiti presidenziali (il 26 settembre, il 9 e il 19 ottobre) mentre i vicepresidenti si confronteranno una volta sola il 4 ottobre.
Rispetto al primo, celeberrimo confronto tv del 1960 tra Nixon e Kennedy, oggi i debates sono cambiati radicalmente e assomigliano più a incontri di pugilato che a tribune politiche. La chiave del successo, però, rimane in parte immutata: i contendenti devono catturare l’attenzione del distratto pubblico televisivo cercando di rispondere in modo efficace agli attacchi dell’avversario e conquistando il centro della scena.

Nel regno della superficialità mediatica l’immagine è tutto: basta una gaffe o un’esitazione per finire K.O. Innumerevoli i casi del passato in cui una frase ad effetto o un gesto sbagliato segnarono l’esito del dibattito a favore dell’uno o dell’altro dei contendenti.
Nel 2000, per esempio, il democratico Al Gore provò a intimorire George W. Bush alzandosi e avvicinandosi con fare da bullo al suo interlocutore. Il risultato? Bush lo squadrò con sorpresa accennando un saluto e continuando come se niente fosse a parlare, facendogli fare la figura del fesso. Otto anni prima fu Bush padre a soccombere, in un dibattito nel quale era presente anche l’indipendente Ross Perot. Fu sufficiente un’occhiata all’orologio, colta dalle telecamere prima di rispondere in modo poco convincente a una domanda rivolta da una donna del pubblico, per dimostrare l’eccessiva freddezza del presidente uscente. Quando toccò a lui, il giovane Bill Clinton diede l’immagine opposta, interagendo con la signora e dando l’impressione di comprenderne le inquietudini.
Altre volte, con una battuta geniale si può uscire da una domanda spinosa, come fece Ronald Reagan nel 1984. Interrogato dal moderatore sulla questione dell’età (Reagan è stato il presidente più anziano della storia americana), Ronnie rispose: “No, assolutamente [non c’è nessun dubbio sulla mia capacità di reggere lo stress ndr] e voglio che lei sappia anche che non farò dell’età una questione di questa campagna elettorale. Non approfitterò, per ragioni politiche, della giovinezza e dell’inesperienza del mio avversario”. Una fragorosa risata seppellì per sempre il problema dell’età.

Oggi, la presenza di una star del reality show come Donald Trump rappresenta una sfida difficile per Hillary Clinton, la quale dovrà essere in grado di rispondere efficacemente alle inevitabili e imprevedibili bordate dello stravagante magnate evitando che il rivale finisca per metterla all’angolo. L’obiettivo della Clinton sarà quello di smascherare la palese impreparazione del tycoon su molti temi (dalla politica estera all’economia) mettendo in luce le sue intemperanze caratteriali e dipingendolo come un candidato potenzialmente “pericoloso” per il futuro della nazione. Dal canto suo, Trump tenterà di confondere le acque evitando di offrire bersagli fissi e provocando continuamente l’avversaria, nella speranza di dettare il ritmo rendendo l’intero confronto un processo a Hillary.
Insomma, si preannunciano duelli al vetriolo in cui a scontrarsi saranno personalità agli antipodi: l’esperta politica che non lascia niente al caso contro l’imprevedibile outsider che ha costruito la sua campagna insultando chiunque gli capitasse a tiro.
Attenti a quei due. Se c’è un dato certo di queste elezioni è che nessuno dei due candidati gode di particolari simpatie tra la gente. Sia Clinton sia Trump (il secondo in misura maggiore della prima) sono stati definiti i pretendenti alla Casa Bianca più odiati degli ultimi decenni. Proprio per questo, a giocare un ruolo inedito saranno quest’anno Gary Johnson e Jill Stein, candidati alternativi alla presidenza e leader rispettivamente del partito libertario e del partito dei verdi. E che la loro ascesa sia un riflesso dell’antipatia sprigionata dagli avversari è dimostrato dal fatto che entrambi si candidarono alla presidenza anche nel 2012, con risultati insignificanti se paragonati a quelli odierni.

Pur non avendo speranze di occupare lo Studio Ovale, Johnson e Stein potrebbero “scippare” a Hillary e Donald consensi preziosi e in caso di quasi pareggio potrebbero addirittura spostare quel tanto che basta per influenzare il risultato definivo delle elezioni, soprattutto negli stati in bilico.
Gli ultimi sondaggi (da prendere con le pinze per ora) danno Johnson tra l’8 e il 10 % dei consensi, mentre la Stein si aggira intorno al 5 %. Cifre impressionanti, considerata la scarsissima copertura mediatica e le misere somme di cui dispongono per le rispettive campagne. E mentre Jill corteggia ormai da mesi gli ex sostenitori di Bernie Sanders proponendosi come la “vera rivoluzionaria”, Gary Johnson sembra piacere in misura maggiore ai repubblicani anti-Trump, raccogliendo secondo uno studio della CNN il 17 % delle preferenze conservatrici scontente del magnate e il 4 % dei delusi democratici. Le percentuali sono in continua evoluzione, eppure il trend è in crescita.
A differenza del partito dei verdi il ticket libertario, formato da due ex governatori repubblicani, sembra riscuotere le simpatie di alcuni pezzi grossi dell’establishment del GOP, tra cui Mitt Romney e Jeb Bush, i quali potrebbero decidere di dare il loro prestigioso endorsement a Johnson per fare uno smacco all’odiato tycoon di New York. Se poi i grandi donor conservatori come i miliardari fratelli Koch decidessero di drenare le loro immani risorse sui libertari, la corsa alla presidenza ne sarebbe stravolta, con sorprese oggi inimmaginabili.
Infine, in base alle regole della Commission on Presidential Debates, l’organismo formalmente indipendente al quale è affidata dal 1988 l’organizzazione dei dibattiti, se Johnson raggiungesse il 15 % di preferenze in 5 diversi sondaggi, avrebbe diritto ad apparire nei faccia a faccia televisivi insieme a Clinton e Trump. Una circostanza difficile, ma in grado di stravolgere gli schemi dei due principali contendenti.
La “Rustbelt” e la “Sunbelt”. Ogni 4 anni, una delle incognite più dibattute dai giornali è quella dei cosiddetti “swing states”, cioè degli stati tradizionalmente in bilico tra democratici e repubblicani la cui conquista è fondamentale per essere eletti alla Casa Bianca. A differenza di quanto avviene in altri paesi, il sistema elettorale a stelle e strisce è infatti indiretto e a eleggere il presidente sono 538 “grandi elettori”, ripartiti in misura diversa nei singoli stati. Per poter assurgere alla presidenza i candidati devono conquistare un numero di stati tale da raccogliere almeno 270 grandi elettori.

La presenza di Trump, candidato che si è discostato spesso dai dogmi conservatori raccogliendo consensi trasversali, ha stravolto in parte la mappa elettorale delle ultime elezioni, invertendo i tradizionali rapporti di forza tra democratici e repubblicani in molti stati. Un esempio è quello di luoghi come lo Utah (terra di mormoni) l’Arizona e la Georgia, ostili al tycoon ma storicamente fedeli ai repubblicani.
Secondo gli osservatori, il destino del magnate si gioca invece in alcuni degli stati della Rustbelt, la fascia nordorientale degli States un tempo cuore dell’industria americana e caduta negli ultimi anni in crisi.
In breve, Trump punta a guadagnare il sostegno della working class bianca presente in posti come Pennsylvania, Ohio, Wisconsin, Michigan (che insieme contano ben 64 grandi elettori) permeabile al suo messaggio economico protezionista e ostile agli accordi commerciali internazionali come il TPP, sui quali la posizione di Hillary è stata nel tempo a dir poco ambigua.
Se Donald minaccia la rivale nella Rustbelt, la nominata democratica cerca di sfondare negli stati in bilico che compongono una parte della cosiddetta Sunbelt. La diversità con cui negli ultimi anni è cambiata la conformazione dell’elettorato, rende la ex first lady competitiva in stati come Virginia, North Carolina, Florida, Colorado e Nevada (insieme 72 grandi elettori).
Insomma, gli sforzi dei candidati saranno concentrati in una decina di stati. È per questo che occorrerà guardare ai sondaggi “locali” per avere un’idea precisa della situazione, mentre le rilevazioni nazionali indicano solo un sentimento generale della popolazione, utile a sondarne gli umori, ma che potrebbe non riflettere le effettive possibilità di vittoria dei contendenti.
Attenzione però: se in questo momento è la Clinton a essere in vantaggio in quasi tutti gli swing states e Trump sembra essere crollato, fino ad ora abbiamo assistito a una eccessiva variabilità dei dati, di cui potremo fidarci solo nei mesi a venire.

Donald Trump. Sì, avete capito bene, al di là dei dati e delle strategie elettorali, l’ultima grande incognita è proprio il tycoon, o meglio la sua incapacità di condurre una campagna elettorale disciplinata. Nel corso delle primarie, The Donald ne ha sparata una al giorno, in faccia a qualsiasi norma del politically correct. Alcuni ritenevano però che durante le general elections, consigliato da astuti consulenti e dalla famiglia, avrebbe cambiato strategia battendo sui temi economici (cosa che ha fatto con indubbia efficacia in alcune occasioni). Invece, nell’ultima settimana il tycoon si è scavato la fossa da solo, polemizzando con la famiglia di un ufficiale decorato e caduto in Iraq tra la giusta indignazione del paese, rifiutandosi di dare il proprio endorsement a Pual Ryan (salvo far marcia indietro qualche giorno dopo), dando l’impressione di voler incitare i supporter del Secondo emendamento della Costituzione (quello sul diritto di possedere armi) a “fermare” Hillary, e continuando collezionando una gaffe dietro l’altra.
Indiscrezioni vicine al magnate dicono che il suo staff non ne possa più di stare appresso alle stupidaggini del capo.
Se nelle prossime settimane continuerà su questa scìa, alienandosi larghissime fasce di elettorato con sparate irresponsabili e dando l’impressione di essere mentalmente instabile, The Donald si sarà giocato qualsiasi possibilità. A quel punto, a Hillary basterà fare un passo indietro e assistere all’autodistruzione del suo rivale.
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