“Scelta sicura”. È così che la maggior parte dei media ha definito la decisione con cui Hillary Clinton ha nominato il proprio running mate. Alla fine, la candidata democratica ha optato per Tim Kaine, senatore della Virginia (ex sindaco di Richmond e governatore dello stato), cattolico, laureato ad Harvard ma proveniente da una famiglia della working class bianca, fetta di elettorato a cui punta la Clinton. Last but not least, Kaine parla fluentemente lo spagnolo, caratteristica che potrebbe aiutare Hillary a raccogliere consensi tra la comunità ispanica, e ha comprovate competenze in politica estera e sicurezza nazionale, essendo membro delle commissioni senatoriali degli affari esteri e delle forze armate.
Insomma, a prima vista Kaine sembrerebbe un compagno di viaggio ideale: senatore di uno swing state, politico esperto e vicino a una delle minoranze da fidelizzare.
Una scelta da manuale, quasi banale nella sua prevedibilità.
Ma non per questo azzeccata. Al contrario, a una analisi più attenta la decisione della Clinton, figlia di un modo di ragionare tipico della “vecchia politica”, dimostra in modo lampante la miopia e l’incapacità della ex first lady di comprendere il clima che pervade l’elettorato americano.
Non bastasse, si tratta di un vero e proprio schiaffo ai milioni di progressisti mobilitati da Bernie Sanders durante le primarie, che avevano fino all’ultimo sperato in una virata a sinistra della Clinton, soprattutto dopo il sofferto endorsement del loro beniamino socialista e le concessioni da lui ottenute nella piattaforma politica del partito. Ai loro occhi, scegliendo Kaine Hillary li ha umiliati preferendo strizzare l’occhio ai moderati repubblicani e a Wall Street piuttosto che venire incontro al movimento creato da Sanders, il quale ha catalizzato gran parte del malcontento popolare strappandolo dalle fauci di Trump e rendendo un indubbio servizio ai democratici. Tutto ciò alla vigilia di una Convention che si annuncia tesa e in un frangente nel quale affiorano inquietanti indiscrezioni che mostrano come la dirigenza del partito abbia giocato fin dall’inizio contro Sanders.
Ma perché Kaine non piace all’ala sinistra dei democratici? È presto detto. Se su temi come controllo delle armi, sanità, diritti gay e ambiente le sue posizioni sono state negli anni in linea con le idee della base democratica, quando si passa all’economia il suo operato è nettamente in contrasto rispetto al sentimento imperante nell’elettorato indipendente e liberal.
Il senatore della Virginia è stato infatti uno dei più entusiasti sostenitori del TPP, l’accordo di libero scambio avversato a sinistra da Sanders e a destra da Trump, e sul quale Hillary ha tentennato in modo sospetto da tempo, dichiarandosi prima favorevole e poi contraria (ma solo a parole, data l’ambiguità della piattaforma di partito sul punto). Oltre a ciò, solo pochi giorni fa il neo-running mate è stato il portavoce di iniziative a favore della deregulation nei confronti degli istituti bancari, che da un lato consentirebbero una maggiore assunzione di rischi da parte delle grandi banche e dall’altro allenterebbero i controlli a tutela dei consumatori per gli istituti regionali di “minori dimensioni” (che a dispetto della definizione includono anche banche con asset di miliardi di dollari).
Tutti particolari, questi, che nell’era dei social media e di internet non sfuggono a nessuno. Così come non sfuggono le indiscrezioni pubblicate qualche tempo fa da Politico e da noi riportate da queste colonne, secondo cui per i fat cats di Wall Street Kaine sarebbe il VP ideale per Hillary. “He checks every box”, dichiarò all’epoca uno degli anonimi donors intervistati dal celebre magazine.
Sia chiaro, Tim Kaine non è il diavolo. E anche se ha la fama di politico noioso, nel primo comizio tenuto nella sua nuova veste a Miami sembra essere in piena sintonia con la Clinton. Chi aveva intenzione di votare democratico lo accetterà senza troppi problemi, mentre gli indecisi continueranno a esserlo fino all’ultimo, mettendo in serio pericolo l’elezione di Hillary.
Probabilmente, in altri periodi Tim sarebbe stato la scelta perfetta. Nel 2008, d’altronde, anche Obama lo inserì nella sua short list, preferendogli all’ultimo minuto Joe Biden, personaggio con esperienza e posizioni politiche simili, ma dal carisma infinitamente maggiore rispetto al senatore della Virginia.
Ma quelle che stiamo vivendo, lo abbiamo capito da tempo, non sono elezioni normali. Nonostante tutto, Hillary non sembra avere afferrato ancora il concetto, preferendo puntare al ribasso. E se l’opzione Warren era oggettivamente impraticabile, visto che la popolarità della senatrice del Massachusetts avrebbe facilmente messo in ombra la ex first lady, di alternative ce n’erano a iosa: da Sherrod Brown a Tom Perez, tanto per citarne due in grado di lanciare un segnale ai progressisti soddisfacendo al contempo i requisiti base del classico running mate.
Dalla nomina di Kaine emerge infine che la Clinton è intimamente convinta di poter vincere facilmente a novembre, e per far ciò ritiene logico spostasi al centro, snobbando liberal e indipendenti. Le sfugge completamente il contatto con quell’America frustrata e stanca dell’establishment, che rischia di astenersi o di rivolgersi altrove in autunno.
A cercare in tutti i modi di intercettarla è invece Donald Trump, il quale non a caso ha subito capito l’errore dell’avversaria, e ha per l’ennesima volta approfittato della situazione per continuare il suo spudorato corteggiamento della base delusa di sinistra. “Tim Kaine è, ed è sempre stato, uno tenuto in pugno dalle banche. I supporter di Bernie sono furiosi, era la loro ultima scelta. Bernie ha lottato invano!” ha twittato il tycoon, che con una tempesta di cinguettii sull’argomento è stato felice di mettere in risalto quello che ai suoi occhi è un terribile autogol di Hillary.
Nello scegliere il suo running mate, il magnate di New York è stato molto più furbo della propria avversaria. Mike Pence non ha infatti le qualità per oscurare il tycoon (come avrebbe invece fatto Newt Gingrich) bilancia il ticket dando un segnale di unità al partito (soprattutto alla destra del Tea Party) e infine non compromette la naturale propensione del magnate ad acchiappare i voti degli indipendenti. Per il resto, siamo certi, The Donald cercherà di relegarlo ai margini facendolo parlare il meno possibile.
Vista da questa prospettiva, la vera “scelta sicura”, almeno per adesso, sembra averla fatta Trump.