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February 9, 2016
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February 9, 2016
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Sulle unioni civili, confronto incivile

In Italia il dibattito urlato e viziato in Parlamento e tv sulle unioni civili

Valter VecelliobyValter Vecellio
Unioni Civili

Un momento della cerimonia in Campidoglio per la trascrizione, davanti al sindaco Ignazio Marino, di sedici matrimoni gay contratti all'estero, 18 ottobre 2014 a Roma. ANSA/ MASSIMO PERCOSSI

Time: 4 mins read

Sempre attuale il “rimprovero” di Gaetano Salvemini al Vaticano; e vale non solo per il Vaticano, che può essere esteso a tutti. Il “rimprovero” mosso è l’inaccettabilità del considerare reato quello che per taluno è peccato; e l’inaccettabilità di considerare peccato quello che la legge prescrive essere reato. Più prosaicamente, è l’evangelico dare a Cesare quello che è di Cesare (cioè allo Stato), e a Dio quello che è di Dio; stando ben attenti a non mescolare le cose: che i danni maggiori avvengono proprio in virtù di questa “confusione”: oggi e sempre, quale che sia lo Stato e il Dio in cui si crede.

In Italia è in corso un feroce confronto sulla questione delle unioni civili. Feroce nel senso che si urla e si blatera;  più che nel paese, nelle aule parlamentari e nei loro dintorni, e in qualche rissoso programma televisivo: “apparecchiato”, si direbbe proprio allo scopo di intorbidare le acque, confondere, impedire che si sappia e si chiarisca cosa si propone, cosa si intende fare, e perché.

Vizio, a quanto pare, tipicamente italiano; è una sorta di costante, trasformare un “Io non lo farei” (facoltà), in un perentorio divieto: “Nessuno lo deve fare, è vietato”. Non che i divieti non debbano esserci; ma divieti e reati devono presupporre danni al prossimo. Se danni non ci sono, allora più che di divieti, c’è necessità di regolamentare, “legalizzare”, fissare ragionevoli limiti e garanzie: da rispettare e tutelare.

Sulle cosiddette unioni civili, cioè la regolamentazione delle coppie (e non necessariamente omosessuali), che per una qualunque ragione hanno deciso di non formalizzare la loro unione con il matrimonio, non si capisce dove sia il danno. Si comprende quale sia se non lo si fa, e si può citare il penosissimo caso di un alpinista famoso, Walter Bonatti: compagno da anni, e stabilmente, di un’attrice, Rossana Podestà, che per amor suo lascia una carriera consolidata. Quando lui sta male, ed è morente in una stanza d’ospedale romano le viene impedito di vederlo, di potergli stringere la mano per l’ultima volta, perché, dicono i sanitari dell’ospedale, “lei è un’estranea, non può vederlo”. E Bonatti muore solo; d’accordo: quei sanitari si sono comportati peggio di bestie, ma è successo, e non dovrebbe accadere. Né per Bonatti e Podestà, né per chiunque, uomo-donna, uomo-uomo, donna-donna. E non c’è bisogno di spiegare perché. E che il paese, almeno in questo, sia molto più avanti di chi lo governa (e spesso sgoverna), lo dicono unanimi tutti i sondaggi demoscopici; né deve impressionare più di tanti la recente, massiccia mobilitazione di un Family Day a Roma: che è stata, a ben vedere, molto più ridotta di altre volte, e comunque senza che dallo stesso Vaticano (il Vaticano di papa Francesco) ci si scaldasse più di tanto; ne fanno fede le edizioni dell’Osservatore Romano e il quotidiano della Conferenza Episcopale dei Vescovi italiani Avvenire.

Uno dei punti più controversi è quella che, mutuando un termine anglosassone riguarda la cosiddetta stepchild adoption dalle unioni civili. In italiano, con discutibile traduzione “utero in affitto”, ma si potrebbe dire “utero in prestito”. Comprendo che la cosa possa far riflettere, che vada attentamente regolata, che ci siano persone che ritengano la cosa incompatibile con il loro sentire e il loro credere; e sicuramente vanno presi in considerazione i possibili rischi di sfruttamento; ma se sfruttamento non c’è, e si tratta di libera scelta? Per fare un esempio: non ho risposta alla domanda di una donna che dice: “Posso donare un rene a mia figlia. Perché non la posso aiutare prestando il mio utero?”. Caso estremo, si dirà. Ma meno di quanto si creda; e comunque: la vita è fatta anche di casi estremi. Serve nascondere la testa sotto la sabbia, fingere che il problema non ci sia, rinunciare a “regolare”, approntare una cornice entro la quale si definisce cosa si può fare e cosa no?

Il Parlamento italiano sta affrontando la questione, che attraversa orizzontalmente schieramenti e partiti, e perché no? Si tratta di questioni che non devono obbedire a logiche di partito, ogni parlamentare deve potersi esprimere e votare secondo la sua coscienza, liberamente. Sarà poi mio compito di elettore giudicare, valutare se il suo comportamento di parlamentare mi soddisfa o no. Se sì, gli rinnoverò fiducia; se no, gliela negherò. Facile, semplice.

Una libertà di coscienza è “concessa” anche da Beppe Grillo ai parlamentari del suo Movimento 5 Stelle, solitamente tenuti a briglia molto stretta, e guai se sgarrano. C’è chi sostiene che questa libertà abbia finalità politiche: mettere in difficoltà il PD, negandogli un necessario sostegno parlamentare; c’è chi ipotizza una mossa astuta per non alienarsi il voto di un elettorato tendenzialmente di destra, sensibile i richiami etici che vengono da quella parte, ma non disposto ad accordare più fiducia ai politici che di quella destra sono espressione; si fanno anche altre ipotesi, di cui francamente interessa poco.

Conta che ogni parlamentare possa votare, e voti, secondo quello che la sua coscienza gli detta. Poi, lateralmente ne discende un’altra riflessione: in punta di diritto (e di Costituzione) i parlamentari sono rappresentanti non dei partiti, ma del popolo, nella sua interezza; articolo 67: “Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”. Dunque “libertà di coscienza” (e di voto) dovrebbe esserci sempre: ogni voto dovrebbe essere assunto in coscienza, e non in “obbedienza”. Ma si vive nel paese dove si vive: una cosa normale, il “voto di coscienza”, diventa cosa eccezionale; se ne deduce che gli altri voti, quelli per i quali questa libertà non viene rilasciata, sono voti d’incoscienza. Legittimo sospetto, che si tramuta in quasi certezza, se appena si entra nel merito di tanti provvedimenti votati come risultano votati. Quanti saranno i parlamentari italiani che conoscono non dico la Costituzione, ma almeno quell’articolo 67 che direttamente li riguarda? Pochissimi, temo, da poterli contare nelle dita di due mani…

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Valter Vecellio

Valter Vecellio

Nato a Tripoli di Libia, di cui ho vago ricordo e nessun rimpianto, da sempre ho voluto cercare storie e sono stato fortunato: da quarant'anni mi pagano per incontrare persone, ascoltarle, raccontare quello che vedo e imparo. Doppiamente fortunato: in Rai (sono vice-caporedattore Tg2) e sui giornali, ho sempre detto e scritto quello che volevo dire e scrivere. Di molte cose sono orgoglioso: l'amicizia con Leonardo Sciascia, l'esser radicale da quando avevo i calzoni corti e aver qualche merito nella conquista di molti diritti civili; di amare il cinema al punto da sorbirmi indigeribili "polpettoni"; delle mie collezioni di fumetti; di aver diretto il settimanale satirico Il Male e per questo esser finito in galera... Avrò scritto diecimila articoli, una decina di libri, un migliaio di servizi TV. Non ne rinnego nessuno e ancora non mi sono stancato. Ve l'ho detto: sono fortunato.

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