“Siamo arrivati alla chiara conclusione che la vera libertà individuale non può esistere senza che vi siano la sicurezza e l’indipendenza economica. Gli uomini in stato di necessità non sono uomini liberi. Le persone affamate e i disoccupati sono gli ingredienti di cui sono fatte le dittature…”. Strano a dirsi, tale citazione non è tratta da uno degli ultimi infiammati comizi del “socialista” Bernie Sanders, ma risale a 72 anni fa. A pronunciarla all’interno di un memorabile e spesso dimenticato discorso sullo stato dell’Unione, uno dei presidenti più amati che l’America abbia mai avuto: Franklin Delano Roosevelt.

Era l’11 gennaio del 1944 e la Seconda guerra mondiale infiammava ancora il globo. Di lì a qualche mese, con la cosiddetta Operazione Overlord, gli alleati sarebbero sbarcati sulle spiagge della Normandia assestando un colpo mortale al nazismo. In tale contesto, in preda alle febbri e appena tornato dalla conferenza di Teheran, Roosevelt decise di delineare un manifesto politico che avrebbe dovuto completare il New Deal, il grande programma di riforme economiche con cui era riuscito a portare gli Stati Uniti fuori dalla terribile recessione del ’29.
Al termine del suo percorso politico e umano FDR annunciava così l’urgenza di un secondo Bill of Rights, che comprendeva una serie di diritti sociali ed economici nel solco dei valori sanciti dalla Dichiarazione di Indipendenza e dalla Costituzione americana. Tra questi, il diritto dei lavoratori a una paga dignitosa (e sufficiente non solo alla sussistenza ma anche allo svago) il diritto di ogni famiglia ad avere un’abitazione, il diritto di ricevere adeguate cure mediche e protezione economica di fronte alla malattia, alla vecchiaia, alla disoccupazione, e ancora il diritto a usufruire di un buon sistema di istruzione e quello di ogni imprenditore (piccolo o grande) di commerciare in un’atmosfera di libera concorrenza al riparo dal dominio dei monopoli, in patria e all’estero.
Non si trattava di un decalogo di aspirazioni utopistiche, ma di una necessità impellente di fronte al vorticoso crescere della potenza industriale americana. Lo sviluppo di tali condizioni sociali ed economiche era insomma indispensabile per raggiungere “l’uguaglianza nella ricerca della felicità”, che i diritti politici, da soli, non riescono per loro natura a soddisfare.
Franklin Delano Roosevelt non fece in tempo a concretizzare il secondo Bill of Rights; sarebbe scomparso nell’aprile dell’anno successivo, consegnando il suo mito ai posteri. E il lascito di quel manifesto programmatico si trasformò presto in una sorta di “rivoluzione mancata”. Nei decenni successivi, tale eredità fu raccolta dai progressisti americani portando a una serie di riforme cruciali, improntate a una maggiore giustizia sociale. Tuttavia, in un paese dove le disuguaglianze sono aumentate a dismisura e in cui esistono tuttora milioni di persone prive di assistenza medica, la eco di quel discorso di 72 anni fa risuona oggi più forte che mai.
Quando fu eletto per la prima volta, nel 2008, sull’onda di una crisi paragonabile a quella del ‘29, Barack Obama ne era pienamente consapevole, tanto da evocare continuamente nei suoi appelli lo spirito rooseveltiano. E i provvedimenti adottati dal primo presidente afroamericano, a partire dal contestatissimo Obamacare, sono andati in quella direzione. Nonostante ciò, al termine del secondo mandato obamiano la middle class americana continua a impoverirsi, e il percorso verso una società più equa appare fragile e incompiuto.
La sensazione di impotenza della classe media ha prodotto estrema sfiducia verso i politici tradizionali, e queste elezioni presidenziali lo dimostrano. Così, mentre in campo repubblicano gli americani simpatizzano per candidati anti establishment come Cruz e Trump, sul fronte democratico hanno determinato la crescente popolarità di Bernie Sanders. Il settantaquattrenne senatore del Vermont, a ben vedere, non ha dimenticato il manifesto di Roosevelt, ma lo ha riproposto con forza dandogli nuova linfa. Non a caso, quando ha parlato agli studenti della University of Georgetown nel novembre dello scorso anno, Bernie ha citato ampi spezzoni del Second Bill of Rights, elevandolo a fulcro del suo intero intervento. Di fronte a una folla di giovani entusiasti, Sanders ha spiegato come il suo concetto di “socialismo democratico” non sia in realtà troppo diverso dall’ideale di giustizia che mosse l’opera politica di un gigante come FDR.
Al contrario, l’allargamento dei diritti economici e sociali è per lui uno dei campi su cui si gioca l’identità futura degli Stati Uniti e il loro ruolo nel mondo. I punti forti del programma di Sanders, che dalla sanità al sistema di istruzione universitario fino all’avversione nei confronti della grande finanza, prevedono un maggiore intervento del governo centrale come forza regolatrice degli squilibri e delle disuguaglianze, sono ai suoi occhi il modo migliore di salvare il capitalismo da sé stesso, portando finalmente a compimento il Second Bill of Rights.
A Georgetown, dove ha citato altri due pericolosi “sovversivi” come Papa Francesco e Martin Luther King, Bernie Sanders ha ricordato come lo stesso Roosevelt abbia ricevuto l’etichetta di “socialista” dai suoi avversari, che provarono a screditarlo in tutti i modi al fine di impedire l’attuazione del New Deal. In altri termini quella rivoluzione politica passò attraverso una lotta senza esclusione di colpi.
Chiamare in causa un “padre della patria” come FDR potrebbe sembrare un artificio retorico per strappare facili applausi, o peggio una arbitraria strumentalizzazione del passato. Eppure il messaggio di Bernie Sanders appare credibile perché si muove su una piattaforma ideale con radici profonde nel pensiero progressista americano. Il successo della campagna elettorale di Bernie, d’altronde, finanziata dal basso con un record di piccole contribuzioni individuali, attesta l’esistenza di una fetta di elettori pronti ad abbracciare un approccio “radicale” nel modo di intendere il cambiamento politico.
L’inaspettato pareggio in Iowa ha evidenziato una fortissima spaccatura generazionale nella base del partito democratico. Le idee di Bernie Sanders hanno infatti riscosso un entusiasmo senza precedenti tra i giovani, mentre le generazioni più anziane hanno preferito abbracciare il messaggio decisamente moderato di Hillary. In fondo, a chi è nato dopo la guerra fredda il termine socialista, se opportunamente spiegato, non fa ormai tanta paura.
Certo, la corsa di Bernie è tutta in salita, e battere la “corazzata” Clinton è impresa quasi impossibile. Nell’ultimo dibattito tra i due candidati sono inoltre emerse alcune pericolose lacune nel programma di Bernie Sanders, prima fra tutte la superficialità con cui il senatore del Vermont ha affrontato i temi di politica estera.
Ma una cosa è certa: al di là del destino personale di Bernie, l’eredità incompiuta di Roosevelt continua a ispirare le nuove generazioni di progressisti americani.
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