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May 10, 2015
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Mafia, Angelino Alfano: “Ha vinto lo Stato” Quale? Quello legale o quello deviato?

Giulio AmbrosettibyGiulio Ambrosetti
Totò Riina

Totò Riina

Time: 8 mins read

Ieri il Ministro degli Interni, Angelino Alfano, è venuto a Palermo a inaugurare la nuova caserma dei Carabinieri realizzata in quello che fu il covo di Totò Riina. L’ultimo covo, leggiamo giustamente su qualche giornale. Perché non sappiamo, nel corso di oltre quarant’anni di latitanza, quanti covi lo Stato ha assicurato a Riina. Alfano ha detto che lo Stato ha vinto. A nostro modesto avviso, la dichiarazione del Ministro è incompleta e prematura. E’ incompleta perché Alfano non ha specificato quale Stato avrebbe vinto. Infatti, di Stati, in Italia, dal 1860 ad oggi, ce ne sono sempre stati due: uno legale e l’altro colluso, o deviato. Quale dei due Stati avrebbe vinto? Detto questo, la dichiarazione è anche prematura. Perché, a nostro modesto avviso, come dimostra il processo sulla trattativa tra Stato e mafia, la guerra tra questi due Stati è ancora in corso. E a noi il risultato finale sembra ancora incerto. Basti pensare ai tentativi di delegittimare il Pm che regge l’accusa di tale processo, Nino Di Matteo, e alle vicissitudini che lo stesso magistrato sta vivendo per essersi ‘permesso’ di coinvolgere in questa vicenda giudiziaria personaggi dello Stato (di quali dei due Stati lo lasciamo decidere ai lettori).   covo di Riina

Nell’opera I mafiusi di la Vicaria, scritta nel 1863 da Giuseppe Rizzotto e Gaspare Mosca, il personaggio centrale di tale commedia, a un certo punto, viene fuori con un ragionamento dalla logica (mafiosa) stringente: ora, dice all’amico con riferimento all’unità d’Italia appena raggiunta, non è più come prima: ora non siamo più “fuori”, siamo “dentro”. Insomma, con i Borboni, nel Regno delle due Sicilie, i mafiosi erano contro lo Stato. Nell’Italia ‘unificata’, anche con l’apporto dei mafiosi unitisi ai ‘Mille’ di Garibaldi e Bixio, gli stessi mafiosi erano ormai “dentro lo Stato e non fuori” (l’eccidio di Bronte non è stato casuale).

Tutta la storia d’Italia degli anni successivi verrà contrassegnata dal rapporto ora tranquillo, ora dialettico tra i due Stati: quello fatto da persone per bene e quello fatto da collusi. Era così ai tempi di Crispi: basti pensare all’omicidio di Emanuele Notarbartolo. Giolitti esagerò, perché per assicurarsi l’appoggio di mafie e camorre varie che operavano nel Sud Italia (e quindi del secondo Stato) non esitò ad utilizzare i Prefetti, non sappiamo se del primo o del secondo Stato (in un celebre libro, Gaetano Salvemini definirà Giolitti “Il ministro della malavita”). Lo stesso Mussolini, quando Cesare Mori – noto come il “Prefetto di ferro” – nella sua crociata contro la mafia voluta proprio dal Duce, iniziò a toccare gli interessi della borghesia mafiosa, venne subito richiamato a Roma. Perché la borghesia mafiosa era fascista e anche lo stesso Mussolini non poteva fare a meno del secondo Stato.  

La borghesia mafiosa sarebbe diventata antifascista dopo la seconda guerra mondiale, prima monarchica e liberale, poi democristiana, ma con infiltrati in tutti i partiti, ad eccezione del Movimento sociale italiano (forza politica che i mafiosi considerarono inaffidabile fino agli anni dell’operazione Milazzo, tra la fine degli anni ’50 e i primi anni ‘60). Con molta probabilità, nel 1943, succede qualche cosa. Ma è solo una variazione sul tema, perché i due Stati italiani rimangono in piedi e in contrapposizione. Allo sbarco in Sicilia prendono parte uomini della mafia siciliana e americana. E nello Stato colluso si innestano interessi che è troppo semplicistico definire solo americani.

Ricordiamo che negli anni ’70 del secolo passato il generale Vito Miceli, messo alle strette dagli inquirenti, parlò di un potere che andava oltre l’Italia e oltre gli Stati Uniti. Non era la Cia, che fa parte degli Stati Uniti. Era ‘qualcosa’ che stava a metà tra l’America e l’Italia, ma che non era né l’America, né l’Italia: una sorta di zona grigia indefinita e indefinibile, probabilmente legata agli equilibri di Yalta. Si riferiva a Gladio? Questo non è mai stato chiarito. Quello che è piuttosto chiaro è che, dal 1943 in poi, nelle vicende italiane – e quindi nei grandi fatti di mafia – il ‘qualcosa’ che stava a metà tra l’America e l’Italia, la zona grigia indefinita e indefinibile potrebbe aver giocato un ruolo importante, se non centrale.

E’ sotto questa luce che andrebbe vista la contrapposizione tra i due Stati italiani. Alcune cose – ma non tutte – si capiranno durante gli anni della prima commissione parlamentare d’inchiesta sulla mafia, che inizierà i lavori nel 1962 e li concluderà nel 1976. Questi 14 anni, se ‘letti’ con attenzione – al netto delle strumentalizzazioni di tanti esponenti del Pci, che in alcuni casi non erano interessati alla lotta alla mafia, ma erano interessati a utilizzare la mafia per eliminare o indebolire avversari politici – anticipano alcuni degli scenari degli anni successivi. sbarco in sicilia

La presenza di due Stati, dal 1943 al 1976, si avverte a fasi alterne. Emblematico il delitto del commissario della squadra mobile di Agrigento, Cataldo Tandoy, avvenuto il 30 marzo del 1960, quando la mafia ‘presta’ tale omicidio alla politica del tempo, per consentire ai partiti (alla Dc, ma non soltanto alla Dc) di ‘regolare’ i propri conti interni. In questo delitto, in un primo momento, verrà invischiato il professore Mario La Loggia. Passaggio, questo, che consentirà alla politica di quegli anni di ‘bruciare’ la candidatura al vertice del Banco di Sicilia del fratello, Giuseppe La Loggia. Questo passaggio è importante perché ci dice che, allora, politica e mafia (e quindi lo Stato deviato o colluso e la mafia) filavano di comune accordo.

Qualcosa deve succedere nel 1976 o qualche anno dopo. Gli echi di questo nuovo ‘qualcosa’ si avvertono nelle dichiarazioni dei ‘pentiti’ di mafia dei primi anni ’80 (Tommaso Buscetta, ma non solo), là dove si parla di contrasti tra politici e mafiosi: non soltanto contrasto tra i due Stati ma, forse anche all’interno del secondo Stato. Dalla fine degli anni ’70 al 1992 la contrapposizione tra i due Stati è piuttosto accentuata. E, forse, non mancano i contrasti all’interno del secondo Stato. Cadono l’allora segretario provinciale della Dc di Palermo, Michele Reina, l’allora presidente della Regione siciliana, Piersanti Mattarella, il generale dei Carabinieri, Carlo Alberto Dalla Chiesa (e con lui, in quegli anni, perdono la vita, in circostanze misteriose, altri generali dei Carabinieri), il segretario regionale del Pci siciliano, Pio La Torre. Ma solo per quest’ultimo – allora impegnato in prima persona nelle manifestazioni contro i missili di Comiso – si intravede, con una certa nitidezza, l’ombra di quel ‘qualcosa’, quasi una zona grigia che sta tra Italia e Usa, ma che non è né Italia, né Usa. Interessante, sotto questo punto di vista, appare la precisazione dell’avvocato Nino Caleca (autore di un libro su La Torre che ha scritto assieme a Elio Sanfilippo), oggi assessore regionale all’Agricoltura, in quegli anni molto vicino a Pio La Torre; Caleca assimila l’omicidio dello stesso La Torre a quello di Olof  Palme, il leader politico socialista svedese ucciso nel febbraio del 1986 (in quegli anni anche Palme era impegnato nella lotta contro la militarizzazione dell’Europa).

Con molta probabilità, quasi tutti i grandi delitti di mafia degli anni ’70, degli anni ’80, fino alle stragi del 1992 andrebbero ‘letti’ alla luce del dualismo tra i due Stati italiani e, forse, anche alla luce della ‘dialettica’ interna al secondo Stato. Ieri il Ministro Alfano, che forse è ancora troppo giovane (o troppo furbo?) ci ha detto che lo Stato italiano ha vinto. Ma, di grazia: quale dei due Stati avrebbe vinto? Ha vinto lo Stato difeso dai magistrati, dai poliziotti, dai carabinieri e, in generale, dai rappresentanti delle istituzioni uccisi negli anni passati, o ha vinto il secondo Stato? In questi giorni ricordiamo Peppino Impastato, il giovane esponente della sinistra ucciso nella notte tra l’8 e il 9 maggio del 1978: ha vinto lo Stato che ha provato a fare luce su questo delitto di mafia o lo Stato che ha provato a depistare la verità? Ha vinto lo Stato che Bruno Contrada ha sempre pensato di servire o lo Stato che l’ha condannato? Ha vinto lo Stato di Falcone e Borsellino o hanno vinto i ‘pezzi’ di quello Stato che, insieme con i mafiosi, o forse utilizzando i mafiosi, hanno organizzato le due stragi? Ha vinto lo Stato che cerca la verità sulla trattativa tra Stato e mafia o lo Stato di un ex Ministro che dice al Quirinale: ragazzi, se cado io mi trascino dietro tutti quanti…

Noi non abbiamo le certezze del Ministro Alfano. A nostro modesto avviso, la guerra tra questi due Stati non è ancora conclusa. Anche perché, di questa guerra, conosciamo i morti, immaginiamo chi potrebbe avere ammazzato magistrati, poliziotti, carabinieri e altri uomini dello Stato legale. Ma non conosciamo tutta la verità dei fatti. Anzi.  

Lo stesso covo di Riina, che oggi ospita una caserma dei Carabinieri, non è certo una testimonianza di verità. Noi ricordiamo ancora l’intervista rilasciata al Corriere della Sera dal magistrato Vincenzo Rovello che, proprio a proposito della vicenda del covo di Riina, parlava di “misteri” da chiarire. Precisando che, senza tali chiarimenti, tutto sarebbe rimasto confuso. Ebbene, i chiarimenti, anche su tale vicenda, non sono mai arrivati. Quale dei due Stati ha deciso, nei giorni della cattura di Riina, avvenuta il 15 gennaio del 1993, di non procedere alla perquisizione del covo del boss dei boss di Cosa nostra? Ricordiamo che la mancata perquisizione del covo di Riina è stata contrassegnata da una lunga e tormentata vicenda giudiziaria. Di questa vicenda noi ricordiamo i Pm della Procura che chiedevano l’archiviazione dei protagonisti della mancata perquisizione e l’ufficio del Giudice per le indagini preliminari (Gip) che rigettava ripetutamente la richiesta dei Pm…

Che cosa sta succedendo oggi? Non lo sappiamo. Dei giorni nostri, però, si possono cogliere alcuni segnali. Un primo segnale – ne parliamo spesso – è l’inserimento, nel calcolo del Pil (Prodotto interno lordo), di attività di solito controllate dalle organizzazioni criminali. Provvedimento voluto da quell’Unione europea dove finanza e banche non esercitano certo un ruolo secondario. La mafia si è finanziarizzata? Questo non da ora. E’ dentro i meccanismi dell’Unione europea dell’euro? L’interrogativo è lecito.

E’ di ieri, poi, un’altra notizia della quale ha parlato Antonella Sferrazza su questo giornale (“Il Governo Renzi risparmia sulla memoria di Falcone: niente navi della legalità il 23 maggio”): lo Stato italiano (per carità, non ci chiedete quale dei due Stati…) che ha deciso di ‘risparmiare’ sulle navi che ogni anno, nel giorno in cui si ricorda la strage di Capaci (l’uccisione di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e gli uomini della scorta), portano in Sicilia gli studenti di tutta l’Italia. Tutti sappiamo – e lo sappiamo soprattutto a Palermo con l’omicidio di Padre Pino Puglisi, ammazzato perché strappava i ragazzi di Brancaccio alla mafia – quante cure i mafiosi prodigano ai giovani, che sono il ‘futuro’ dell’onorata società.

Insomma due segnali contemporaneamente: lo Stato ha vinto la mafia e niente più navi con i ragazzi a Palermo nel giorno della commemorazione di Falcone. Il secondo segnale è solo una questione di ‘risparmio’ o c’è dell’altro?    

 

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Giulio Ambrosetti

Giulio Ambrosetti

Sono nato a Palermo, ma mi considero agrigentino. Mio nonno paterno, che adoravo, era nato ad Agrigento. Ho vissuto a Sciacca, la cittadina dei miei genitori. Ho cominciato a scrivere nei giornali nel 1978. Faccio il cronista. Scrivo tutto quello che vedo, che capisco, o m’illudo di capire. Sono cresciuto al quotidiano L’Ora di Palermo, dove sono rimasto fino alla chiusura. L’Ora mi ha lasciato nell’anima il gusto per la libertà che mal si concilia con la Sicilia. Ho scritto per anni dalla Sicilia per America Oggi e adesso per La Voce di New York in totale libertà.

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