Anche se con notevole ritardo il Bilancio della Regione siciliana 2015 è ormai alle battute finali. Dopo l’approvazione del documento finanziario da parte della commissione Finanze la parola passa adesso al Parlamento siciliano per il dibattito e il sì finale. Entro questa settimana, a meno di nuovi colpi di scena, quella che ora si chiama legge di stabilità (che sostituisce Bilancio e Finanziaria, ma che è sostanzialmente la stessa cosa chiamata con un nome diverso) dovrebbe essere approvata. Anche se non mancano le polemiche. Soprattutto da parte dei circa 18 mila dipendenti della Regione siciliana che, tra proteste e scioperi, annunciano una settimana di fuoco.
Con molta probabilità, in questa protesta dei dipendenti regionali c’è di tutto e di più. Ci sono i sindacati che, nelle battute finali dell’iter di una legge piuttosto tormentata, hanno ritrovato i motivi dello scontro sociale e politico. C’è la stessa politica siciliana, divisa sui provvedimenti da adottare per fare ‘cassa’. E ci sono gli stessi dipendenti regionali che, in verità con un po’ di ritardo, hanno capito che a loro verranno chiesti sacrifici non indifferenti in stile Grecia. Ma come stanno le cose? Qual è la verità?
Sul fatto che la Regione siciliana (che, lo ricordiamo sempre a beneficio dei lettori, soprattutto americani, è Autonoma, con un proprio Parlamento e con una propria capacità legislativa), a partire dagli anni ’80 del secolo passato, abbia assunto troppi dipendenti pubblici non ci sono dubbi. Ci sono troppi dipendenti negli uffici della Regione, troppi dipendenti nei Comuni (il solo Comune di Palermo, fino a qualche anno fa, tra personale di ruolo e personale precario, contava più dipendenti pubblici della stessa Regione siciliana: circa 20 mila addetti!). E ci sono troppi dipendenti negli enti delle società regionali e comunali.
Per la politica siciliana – e il discorso, a dir la verità, riguarda quasi tutto il Sud Italia – la pubblica amministrazione non è una scienza, come si studia nelle università, ma un sorta di ‘bordello sociale’ dove far comunque lavorare quanta più gente possibile, da assumere senza concorso, in barba alla Costituzione italiana che, invece, per l’assunzione nella pubblica amministrazione, prevede i concorsi pubblici. Il tutto a detrimento della stessa pubblica amministrazione che, infatti, nel Mezzogiorno funziona poco e male.
Sotto questo profilo, la Regione siciliana, in Italia, ha fatto scuola. Dalla fine degli anni ’80 del secolo passato sono stati creati migliaia e migliaia di precari che sono poi stati ‘stabilizzati’ nelle varie pubbliche amministrazioni (Regione e Comuni in testa), seguendo criteri puramente clientelari: creazione di precari e successive ‘stabilizzazioni’ in cambio di voti. Un disastro sociale, con la creazione di una pubblica amministrazione inefficiente.
In Sicilia si è raggiunto l’incredibile. Fino ai primi anni ’90 del secolo passato, appena un’azienda privata chiudeva i battenti, si apriva una trattativa con la Regione che si concludeva con l’immancabile assunzione di quasi tutto il personale nella pubblica amministrazione. Ricordiamo un negozio di scarpe, molto noto a Palermo e in Sicilia. I cui dipendenti sono finiti tutti nella pubblica amministrazione regionale, con particolare riferimenti all’assessorato ai Beni culturali. Che nesso ci sia tra il vendere scarpe e la gestione dei beni culturali, beh, non è facile capirlo. Bisognerebbe chiederlo ai politici e ai sindacalisti siciliani, che in queste pratiche sono ‘maestri’.
Oggi il governo nazionale di Matteo Renzi – con particolare riferimento ai suoi ‘luogotenenti’ siciliani (il parlamentare nazionale Davide Faraone, ‘capo’ dei renziani siciliani, e l’assessore all’Economia, Alessandro Baccei, imposto al governo regionale di Rosario Crocetta dallo stesso Renzi) – scopre che in Sicilia ci sono troppo dipendenti pubblici. E decide di attuare le ‘riforme’, che altro non sono che riduzione degli stipendi e prepensionamenti.
Per onestà di cronaca – visto che siamo stati testimoni, dalla seconda metà degli anni ’80 fino ai nostri giorni – di tutto quello che è avvenuto nella pubblica amministrazione siciliana, va detto che la tesi del governo nazionale di ridurre forzosamente e unilateralmente la spesa per la pubblica amministrazione dell’Isola sembra un po’ forzata. Proprio perché siamo stati testimoni di tutto quello che è accaduto, non possiamo non ricordare che tutte le assunzioni nella pubblica amministrazione siciliana (con riferimenti a Regione, Comuni, Province, società ed enti regionali, provinciali e comunali) sono avvenute tramite leggi approvate dal Parlamento siciliano e avallate dal Parlamento nazionale.
Ricordiamo che la Regione siciliana autonoma gode di ampia potestà legislativa. Ma che tutte le leggi approvate dal Parlamento dell’Isola sono passate dal vaglio di Roma. Comprese quelle che riguardano le assunzioni a ruota libera nelle pubbliche amministrazioni. Se i governi nazionali che si sono succeduti dagli anni ’80 fino ad oggi si fossero opposti, la Sicilia non avrebbe potuto distruggere la propria pubblica amministrazione assumendo tutto questo personale. Invece Roma ha avallato e, spesso, sollecitato questo ed altro. In alcuni casi è stata essa stessa a creare i precari che sono poi stati ‘stabilizzati’ nella pubblica amministrazione siciliana. L’ha fatto nei primi anni ’80. Ha replicato a fine anni ’80 con l’articolo 23 della Finanziaria nazionale del governo Goria, creando migliaia di precari finiti tutti nelle pubbliche amministrazioni siciliane. E ha triplicato con la legge Treu durante gli anni del governo Prodi, quando ha creato i ‘famigerati’ Lsu, Lavoratori socialmente utili, oggi quasi tutti ‘stabilizzati’ nelle pubbliche amministrazioni del Sud.
C’è sempre stato un tacito patto tra la politica romana e le classi dirigenti, o presunte tali, del Sud Italia: al Centro Nord andavano gli investimenti produttivi, le infrastrutture e la Cassa integrazione; al Sud la possibilità di creare precari e di ‘stabilizzarli’ nelle pubbliche amministrazioni. Con gli Lsu, nella seconda metà degli anni ’90, il governo Prodi e i successivi governi di centrosinistra hanno sorretto le amministrazioni comunali, sempre di centrosinistra, di Napoli, Palermo e Catania, per citare solo tre esempi. La stessa cosa hanno fatto i governi Berlusconi del 2001-2006 e del 2008-2011: sostegno alla creazione di precari utilizzando i fondi che sarebbero dovuti servire per gli investimenti (ancora oggi i Comuni di Palermo e Catania pagano le follie fatte con il precariato nella seconda metà degli anni ’90 e dal 2001 al 2011: non a caso i bilanci di questi due Comuni sono colabrodo).
Insomma, i governi nazionali hanno sempre patrocinato gli scambi clientelari nel Sud e in particolar modo in Sicilia. Cosa, questa, che ha condannato migliaia di giovani del Sud che hanno fatto bene il Liceo e l’università all’emigrazione. Perché questo modello di sviluppo, anzi di sottosviluppo economico ha fisicamente impedito a migliaia di giovani preparati del Sud, a partire dalla fine degli anni ’80, di accedere nelle pubbliche amministrazioni per concorso. E ha impedito allo stesso Sud di utilizzare le risorse finanziarie, che invece di essere dirottate negli investimenti per le infrastrutture venivano regolarmente dirottate nella spesa clientelare per precari e sprechi nella stessa pubblica amministrazione.
Oggi che i soldi pubblici sono finiti Renzi vorrebbe chiudere questo capitolo. Dimenticando che è stata Roma, dai primi anni ’80 fino ai nostri giorni, a sollecitare la gestione clientelare delle pubbliche amministrazioni del Sud. Perché senza i voti del Sud non avrebbero potuto governare né Prodi, né Berlusconi, né gli altri governi che si sono susseguiti fino all’arrivo del governo Monti.
Oggi, dicevamo, Renzi vorrebbe mettere la parola fine a uno scambio clientelare tra i governi nazionali e classe politica del Sud Italia che va avanti da oltre trent’anni. E vorrebbe farlo senza alcuna assunzione di responsabilità da parte di Roma. E vorrebbe farlo a partire dalla Sicilia. Prepensionando migliaia di persone (che prenderebbero il Trattamento di fine rapporto, così si sussurra, a partire dal 2020!). Riducendo l’area dirigenziale. E tagliando le retribuzioni.
Di fatto, Renzi vorrebbe fare in Sicilia quello che è stato fatto qualche anno fa in Grecia, dove i dipendenti della pubblica amministrazione sono stati massacrati. E dove – stando a quello che leggiamo in queste ore – dovrebbero essere ulteriormente massacrati, con stipendi ancora più bassi e con servizi sanitari a pagamento (perché, di fatto, è questo quello che Mario Draghi e i gli altri ‘draghi’ della Troika chiedono al premier greco Tsipras: nuovi sacrifici).
Insomma, da oltre trent’anni lo Stato italiano sguazza nel Sud, patrocinando tutte le operazioni clientelari nella pubblica amministrazione. Adesso si vorrebbe chiamare fuori. ‘Mangiando’ i ‘figli’ che ha creato. Un po’ come il dio Urano. Che però, notoriamente, fece una brutta fine…