Non vorranno capire. Si rifiuteranno di capire. Si perderanno nell’italica abitudine di spaccare in quattro il capello; ricominceranno con grottesca seriosità a snocciolare percentuali, a “far l’amore” con le percentuali elettorali, vorranno sempre e comunque far notare che un 11 e mezzo per cento di voti ‘non’ è certo da buttare e che “il segnale autorizza a”…
Ancora e sempre questo benedetto ‘segnale’ uscito dalle urne… Così agisce il politico di mestiere nostrano, che sia di destra, di centrodestra o di sinistra (ma c’è ancora la sinistra??), non fa alcuna differenza.
Che nella “rossa”, “rossissima” Emilia che un tempo fu del comunista Zangheri e del Peppone creato da Guareschi, sei votanti su dieci abbiano disertato i seggi elettorali, rientra semplicemente in “un disagio che non deve tuttavia minare le basi democratiche”. Un’astensione come quella dello scorso novembre in Emilia-Romagna non s’era mai verificata. Mai.
E’ così. Sarà così per chissà quanto altro tempo. Chissà per quanto altro tempo ancora ci toccherà rivederli in televisione, risentire il suono di parole, ormai vuote, che adorano: “verifica”, “approfondimento”, “riflessione”. E’ così che si guadagna tempo. E’ così che si resta ben saldi sul carrozzone parlamentare, indifferenti alle sorti di milioni e milioni di italiani ridotti alle ristrettezze, nell’ansia, nella disperazione: basta montare su un mezzo pubblico per rendersene conto.
Ma sono esenti da colpe gli italiani?? A questo punto bisogna pur chiederselo. Dànno prova di buon senso, d’avvedutezza, di lungimiranza, gli italiani? Hanno dato prova di saggezza, concretezza, civismo in questi ultimi venti o ventidue anni grosso modo? Hanno capito quali sono i veri interessi del Paese? Assomigliano o non assomigliano alle generazioni dalle quali sono stati preceduti? Gli italiani sono ancora “gli italiani”?? Siamo tuttora gente alla quale è impossibile darla a bere, gente pronta ad esporsi in difesa di sacrosanti diritti; donne e uomini, come si diceva un tempo, “col sangue nelle vene”? No. Siamo cambiati. Molti di noi sono stati fiaccati, scoraggiati dai muri di gomma del Sistema ancora partitocratico; molti altri hanno ceduto alla chimera della libera iniziativa, del libero mercato portatori di “ricchezza”, “benessere”, “felicità”… Abbiamo spalancato le porte al neo-conformismo sia della destra che della sinistra.
Prima, no. Prima noi non eravamo così…
Si prendano le elezioni generali del 1948, indette a tre anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Le segreterie di partito già non giocavano in modo propriamente specchiato e la Chiesa inserendosi nella contesa politica, tradiva il suo stesso mandato, quello cioè di occuparsi dell’anima dell’essere umano e di nient’altro: invettive ingiuste anche per chi firma questo articolo quelle che piovevano sui comunisti, accusati da prelati e parroci di delitti efferati a danno dei bambini… Non era difficile rischiare una scomunica…
Ma c’erano le passioni. Quelle vere. Quelle che mobilitavano milioni di italiani fra democristiani, comunisti, socialisti, liberali, monarchici. Passioni però tenute sotto assiduo controllo dal senso di responsabilità di tutti quanti, centristi, socialcoministi, monarchici: sarebbe bastato ben poco per scatenare le masse l’una contro l’altra, per dar luogo a un altro bagno di sangue. Il 14 luglio di quell’anno, a Roma, uno studente universitario, Antonio Pallante, tentò d’assassinare a colpi di rivoltella Palmiro Togliatti, segretario nazionale del PCI, “il Migliore”, uno dei massimi protagonisti della Storia dell’Italia repubblicana. S’ebbero forti tensioni, anche scontri di piazza, specialmente in Emilia e in Lombardia. Dopotutto, un clamoroso attentato era stato commesso, il leader comunista aveva rischiato, eccome, di rimetterci la pelle. Si disse che la sfolgorante vittoria finale di Gino Bartali al Tour de France, arrivata in quelle ore, avesse stemperato, e di parecchio, soprattutto gli animi dei “rossi”… “Battute”, ‘boutade’… La verità è che gli italiani, comunisti o anticomunisti, seppero comportarsi con straordinaria maturità. Tre mesi prima s’erano svolte le elezioni generali, la DC aveva ottenuto la maggioranza relativa, il PCI aveva dimostrato di rappresentare una forza politica assolutamente formidabile. L’affluenza alle urne? Oltre l’80 percento. Capito?
Forti, sissignori, le passioni che attraversavano l’Italia di tempi ormai remoti. Si lottava per la casa, per giuste retribuzioni, per maggiori coperture previdenziali. Si lottava in nome della Lotta di Classe, tanti comunisti ci credevano, ma non tantissimi e uno di questi ultimi era Enrico Berlinguer, l’agiato borghese sardo colpito in gioventù dal senso di colpa nei riguardi dei poveri, dei meno fortunati: non credeva in un’Italia comunista dominata dalla paura, controllata da uno Stato di polizia, madre d’un popolo tenuto a stecchetto.
Gli uomini politici dell’Italia che andava a votare “a plotoni affiancati”… De Gasperi, democristiano, uno dei padri della Repubblica; Andreotti, ‘enfant prodige’ scudo crociato, Nenni, socialista di ferro; Pella, il premier centrista che nel ’54 mandò i Bersaglieri a Trieste controllata dagli inglesi e Trieste tornò all’Italia; Giovanni Gronchi e Antonio Segni Capi di Stato centristi fra gli anni Cinquanta e Sessanta; Colombo, altro democristiano, fortissimo in materia finanziaria, eccellente ministro; Fanfani, anch’egli “Libertas”, l’uomo che con successo e rapidità rilanciò l’edilizia popolare in Italia; De Marsanich, ascetico dirigente del MSI, Almirante, il ‘grande comiziante’, anch’egli missino; il cattolico Moro, teorico delle convergenze parallele assassinato dalle BR nel ’78; e altri ancora come il monarchico Covelli, il liberale Malagodi, il repubblicano La Malfa, i democristiani Togni, Zoli, Tambroni.
Non sgomitavano… Non s’intromettevano. Non pretendevano di monopolizzare su se stessi l’attenzione; rifuggivano lo sfarzo, il gran lusso: caso mai si parlava di “mosche bianche” in relazione agli scandali Aeroporto di Fiumicino e Città Giardino Roma. Manco ci pensavano ad andare a dire ai cittadini in tv o alla radio “io tifo per la Juve”! “Io tengo per la Roma”! Non s’insultavano l’un l’altro. Nel bene e nel male, stabilite loro precise responsabilità non molto favorevoli alla causa della nazione italiana, furono nemici naturali delle banalizzazioni, delle superficialità, del sentito dire, del preconcetto.
Ci si batteva in difesa dell’iniziativa privata, convinti che, affidata a imprenditori illuminati, consapevoli della necessità di servire per primo lo Stato garante del bene popolare, l’economia nazionale avrebbe presto distribuito buoni frutti alle masse. Lo slancio, l’impeto, l’esuberanza erano all’ordine del giorno, sia fra noi giovani, come era naturale che fosse; sia fra i meno giovani, fra i siciliani che sgobbavano nelle zolfatare, fra gli operai del Triangolo Milano-Torino-Genova; fra muratori, artigiani, impiegati d’ordine, impiegati di concetto, garzoni, commessi e commesse; studenti di liceo, studenti universitari, personalità del cinema, della letteratura, delle scienze. L’afflato era comune, sia che si trattasse di “difendere il mondo occidentale”, sia che si sventolasse la bandiera rossa.
Le masse seguitavano ad affluire ai seggi elettorali: così alle politiche del ’53, del ’58, del ’63, e alle varie amministrative tipo quelle del 1970, le prime, secondo noi, a mostrare una grossa valenza politica. L’affluenza non scendeva mai sotto l’80 percento; votare era considerato più un dovere che un diritto. Bello, no? Oserei dire addirittura poetico: dovere, sì, prima ancora che diritto.
Noi che avevamo sedici, diciassette, diciott’anni, non vedevamo l’ora di raggiungere i 21 anni per godere quindi dello status di elettori e di elettrici. Scalpitavamo. Fremevamo. Il dibattito appariva incessante. Incessante nelle scuole, nelle fabbriche, perfino negli uffici, sugli autobus, nei ritrovi, nelle “gallerie” di Roma e di Napoli, sotto i portici di Firenze e Bologna, anche allo stadio, fra il primo e il secondo tempo: negli spogliatoi di società di Rugby, nelle piazze, nelle stazioni, sui treni, i “direttissimi”, il “Settebello”.
Non era vero che gli italiani fossero un popolo che non leggeva. Gli italiani di cinquanta, sessant’anni fa leggevano. Perdio se leggevano. Andavano a ruba “l’Unità” (comunista), “Paese Sera” (socialcomunista), “l’Avanti!” (socialista), il “Secolo d’Italia” (missino), l’”Espresso” (sinistra ‘chic’), “La Piazza” e “Asso di Bastoni” (missini), “Il Giorno” (ENI, con risvolti socialisteggianti), “L’Avvenire d’Italia” e “L’Avvenire” (cattolici) da cui nel 1968 nacque l’attuale “Avvenire”.
Garzanti, Bompiani, Baldini & Castoldi, Mondadori, Einaudi ristampavano, a profusione, romanzi (perlopiù autobiografici) di Camus, Gide, Graham Greene, Drieu La Rochelle, Remarque e perfino di Zilhay e Kormendi, macerati, tormentati autori ungheresi di gran successo in Italia e altrove negli anni Trenta e Quaranta. Uscivano libri sulla Seconda Guerra Mondiale e qui il dibattito s’infiammava ancora di più… Basti citare “Gli amici dei nemici” e “Settembre nero”, di Antonino Trizzino, acerrimo nemico dell’Ammiragliato “sabaudo” che, secondo l’inesauribile giornalista siciliano, avrebbe fatto la guerra “dalla parte degli Inglesi” e non da quella dell’Asse o del Tripartito…
Andavano molto in voga anche i “tascabili”, magnificamente diffusi in tutt’Italia, dal Trentino alla Sicilia: fu grazie ai “tascabili” che io e altri della mia generazione potemmo conoscere e leggere autori del calibro di Drieu La Rochelle (con “Fuoco fatuo”) e di David Storey (con “Io sono un campione” e “Fuga a Camden”).
Gli italiani insomma leggevano. Andavano parecchio al cinema. Già erano sorti i ‘cinema d’essai’. Soltanto nella seconda metà degli anni Sessanta la televisione in termini di popolarità avrebbe superato il cinema. Al cinema si vedeva di tutto: io e miei compagni di scuola nel 1960 restammo incantati dal film “Ballata d’un soldato”, film sovietico, assai poetico e verista al tempo stesso.
Nella Roma degli anni Cinquanta e Sessanta, due erano i luoghi deputati alla contesa politica, ideologica; sedi di raduni politici spontanei: Galleria Colonna e Piazza dei Cinquecento. In Galleria Colonna, dove risuonavano morbide, ma anche frizzanti, le note dell’orchestra che nell’attiguo “Caffè Berardo” s’esibiva ogni giorno dopo le 18.00, affluivano reduci della Repubblica Sociale, reduci della Decima Mas, della Guardia Nazionale Repubblicana, delle Brigate Nere, la “Aldo Resega”, la “Cappellini”, la “Ettore Muti”. Fra loro lo scontro era dato dalla svolta reazionaria decisa dal MSI nel 1950. Polemica cui partecipavano anche vecchi partigiani, sia rossi che bianchi e vecchi soldati dell’Esercito del Regno del Sud che la pace coi repubblichini l’avevano fatta già sul finire degli anni Quaranta. Ognuno, alla fine, se ne andava col proprio punto di vista…
In Piazza dei Ciquecento, fatti i compiti a casa, ci s’andava noi studenti fra i 15 e i 16-17 anni, “patriotti” al mille per cento…! L’8 Settembre?? Un’infamia! L’istituzione delle Regioni?? Una follìa! Venivamo affrontati da uomini maturi iscritti al PCI o al PSI e nella diatriba riuscivamo a infilarci perfino Giovanni dalle Bande Nere, Napoleone, i Generali Roccaromana, Pino, Lechi; Gioacchino Murat, la Repubblica Partenopea del 1799, la Repubblica Romana del 1849… Vincevamo noi! Ma non certo per preparazione e brillantezza d’argomentazioni, bensì per sfinimento dell’antagonista che a un dato momento se ne andava scoraggiato. Incompreso!
Ci battevamo per il divorzio. Salutammo con sollievo e soddisfazione l’introduzione appunto del divorzio in Italia, in base alla legge promulgata nel 1970 e ribadita nel 1974, grossissimi e meritati successi più dei radicali che dei socialisti. Marco Pannella, un vero leone in difesa della libertà, della dignità della persona.
Elezioni, referendum: affluenza alle stelle o, comunque, piuttosto ragguardevole.
Che cosa resta, oggi, di tutto questo? Il ricordo. Nient’altro che il ricordo.