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December 5, 2014
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I figli di New York che non si arrenderanno mai alla violenza razzista

Stefano VaccarabyStefano Vaccara
I manifestanti giovedì sera sul Brooklyn Bridge (Foto Louis Vaccara)

I manifestanti giovedì sera sul Brooklyn Bridge (Foto Louis Vaccara)

Time: 5 mins read

 

Per una piccola infrazione, qualche mese fa, mio figlio ha ricevuto un "ticket". La polizia di New York lo ha fermato per strada a Manhattan, due poliziotti in borghese lo hanno bloccato e perquisito.  L'infrazione aveva permesso a quei poliziotti che attendevano, di fermarlo. 

Quando mio figlio è arrivato a casa quella sera,  ha raccontato l'episodio con una certa emozione, era la prima volta che veniva fermato dalla polizia. Era preoccupato per il "ticket", che noi ci saremmo arrabbiati così tanto da non farlo uscire per chissà quanto tempo. Certamente arrabbiato, eccome se lo ero per quel ticket, ma in quel momento soprattutto ero preoccupato di come la polizia avesse trattato quel giovane di 17 anni che sento ancora così vulnerabile. Gli avevano fatto del male? Lo avevano forse buttato a terra? Gli avevano messo le manette, lo avevano terrorizzato? "No, veramente sono stati abbastanza corretti", mi ha riposto. "Hanno fatto vedere il distintivo, e hanno detto  che dovevano perquisirmi. Mi sono spaventato, non mi era mai successo prima, ma loro erano calmi e professionali. E quando hanno visto che non avevo niente, sono diventati anche gentili, mi hanno detto che mi dovevano ormai far quel ticket. Mi hanno detto di pagare subito la contravvenzione e tutto sarebbe tornato a posto". 

Mio figlio negli ultimi dieci giorni ha già manifestato tre volte per le strade di New York contro la violenza della polizia. La scorsa settimana era a Union Square per poi finire la marcia ad Uptown, per le proteste per il mancato processo di Ferguson, Missouri… Questo giovedì sera, mio figlio era ad Union Square, poi giù fino a downtown, per attraversare il Brooklyn Bridge. Con migliaia di manifestanti ha praticamente forzato un blocco della polizia che stava tentando di impedire l'accesso al ponte. All'inizio, mi ha raccontato, è rimasto davanti ai poliziotti schierati per lunghissimi minuti, e lì ha temuto che da un momento all'altro scattassero le randellate e gli arresti.  Ma poi dalla Broadway continuava ad arrivare un fiume di gente che si accalcava verso l'ingresso del ponte, stringendo e spingendo quelli che erano già lì bloccati dal muro della polizia e qualcuno del NYPD deve per fortuna aver capito che sarebbe stato pericolosissimo continuare a mantenere quel blocco. Così hanno aperto il cordone e i manifestanti hanno potuto attraversare il ponte. Mio figlio ha continuato verso Brooklyn, su Atlantic Avenue, fino al Barclays Center, marciando accanto ai familiari delle vittime della polizia di New York, padri, madri, sorelle e fratelli che portavano le bare con scritto il nome dei loro cari.

ponte

La protesta sul ponte di Brooklyn

Quando ho chiesto a mio figlio come mai si sentiva così coinvolto nelle proteste contro la polizia, dato che qualche mese prima la sua esperienza con l'NYPD non era stata affatto negativa, ha replicato guardandomi con sospetto: "Io posso anche non aver paura che la polizia mi faccia del male, ma se invece avessi la pelle nera? Potrei uscire tranquillo? Questa ingiustizia non può continuare, sicuramente non più qui a New York".

A Ferguson, Missouri, come a Staten Island, New York, un poliziotto bianco uccide per l'ennesima volta un cittadino afro americano. Nel primo caso a colpi di pistola. Nel secondo caso con una colpo marziale, praticamente strozzando.

Il poliziotto che nel video di Staten Island stringe il collo e non molla la presa anche quando si sente chiaramente il povero Eric Garner gridare "non posso respirare, non posso respirare", è un italoamericano e si chiama Daniel Pantaleo. Chissà se questo poliziotto, che come il collega di Ferguson non sarà processato pur avendo causato la morte di un uomo disarmato, abbia mai immaginato che suo nonno o bisnonno, al suo arrivo a New York, corresse più di altri emigranti il rischio di finire a terra picchiato dai cops proprio per quel suo cognome che finisce per vocale…

Il sindaco Bill de Blasio si ritrova adesso in una situazione delicatissima. Come mayor, lui è il capo della polizia e William Bratton, il commissioner per la NYPD,  risponde direttamente al sindaco.  Ma proprio perché è il capo della polizia, de Blasio non può esprimere senza freni tutta la sua rabbia per quello che è successo a Staten Island e che, si sa benissimo, potrebbe accadere ancora nei cinque borough della città. De Blasio di rabbia ne deve avere in questo momento da scoppiare, lui sindaco italoamericano (il cognome italiano è quello di sua madre), e padre di un afroamericano. Il figlio del sindaco ha la stessa età di mio figlio, hanno pure frequentato insieme la stessa scuola media di Brooklyn. Ma Dante, con quel nome così italiano, ha la pelle scura e orgogliosi capelli afro, mentre mio figlio Louis è un italoamericano bianco come quel poliziotto di Staten Island. Così io dovrei star tranquillo quando mio figlio si trova in giro per New York, perché so che anche quando capitasse la cazzata dei ragazzi della sua età, i poliziotti di NY gli darebbero sì una lezione, ma con una multa e trattandolo con rispetto. Ma Bill de Blasio? Che cosa deve passare dalla mente del primo cittadino di questa città, che se Dante non fosse riconosciuto come il figlio del sindaco, anche per una piccola infrazione, potrebbe rischiare la vita? 

Nelle città degli Stati Uniti si allargano le proteste contro ripetute violenze della polizia ritenute "razziste", proprio mentre Barack Obama, il primo non bianco presidente degli Stati Uniti, è ancora alla Casa Bianca. Sembra che quella storica elezione del 2008 non abbia cambiato nulla, anzi che con Barack la situazione sia peggiorata, come se il primo presidente nero avesse dato sfogo al veleno razzista che ancora scorre nelle vene di una certa America.

Per fortuna a New York, la protesta per le strade di questi giorni, non coinvolge solo gli afro americani, ma tutte le mille etnie di questa città. Perché chi ha scelto di vivere e crescere i propri figli qui, non può accettare che nell'orologio della storia si spostino indietro le lancette dei diritti.   

Sono contento e orgoglioso che mio figlio sia andato con i suoi compagni a protestare per le strade di New York. Il video che abbiamo visto di quella morte assurda di Staten Island, dimostra che la giustizia, nella città di New York, è stata calpestata e poi ulteriormente mortificata. Ma ci rinfranca vedere che una gran parte dei cittadini di questa metropoli, giovani e vecchi, neri e bianchi, poveri e ricchi, hanno subito reagito e sono pronti a difenderla, oggi più che mai, la giustizia. Con una protesta civile, pacifica, determinata e vincente. 

 


 

https://youtube.com/watch?v=QphZPMuzFXM

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Stefano Vaccara

Stefano Vaccara

Sono nato e cresciuto in Sicilia, la chiave di tutto secondo un romantico tedesco. Infanzia rincorrendo un pallone dai Salesiani e liceo a Palermo, laurea a Siena, master a Boston. L'incontro col giornalismo avviene in America, per Il Giornale di Montanelli, poi tanti anni ad America Oggi e il mio weekly USItalia. Vivo a New York con la mia famiglia americana e dal Palazzo di Vetro ho raccontato l’ONU per Radio Radicale. Amo insegnare: prima downtown, alla New School, ora nel Bronx, al Lehman College della CUNY. Alle verità comode non ci credo e così ho scritto Carlos Marcello: The Man Behind the JFK Assassination (Enigma Books 2013 e 2015). Ho fondato e dirigo La VOCE di New York, convinto che la chiave di tutto sia l’incontro fra "liberty & beauty" e con cui ho vinto il Premio Amerigo 2018. I’m Sicilian, born in Mazara del Vallo and raised in Palermo. I studied history in Siena and went to graduate school at Boston University. While in school, I started to write for Il Giornale di Montanelli. I then got a full-time job for America Oggi and moved to New York City. My dream was to create a totally independent Italian paper in New York to be read all over the world: I finally founded La VOCE di New York. In 2018 I won the "Amerigo Award". I’m a journalist, but I’m also a teacher. I love both. I cover the United Nations, and I correspond from the UN for Radio Radicale in Rome. I teach Media Studies and also a course on the Mafia, not Hollywood style but the real one, at Lehman College, CUNY. I don't believe in "comfortable truth" and so I wrote the book "Carlos Marcello: The Man Behind the JFK Assassination" (Enigma Books 2013 e 2015). I love cooking for my family. My favorite dish: spaghetti con le vongole.

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