Si parla molto, in Italia, delle aperture di Beppe Grillo a Nigel Farage. Non mi piace l’UKIP: assomiglia troppo al Tea Party americano, il cui unico scopo è coprire da destra le frustrazioni di una classe media impoverita e la cui qualità della vita è in caduta libera – quelli che un tempo li si definiva piccolo-borghesi e che pur non essendo più chiamati così ne hanno conservate le caratteristiche: conformismo, individualismo, conservatorismo. Ma la ragione per cui l’UKIP non piace a giornali e telegiornali è ben diversa dalla mia e ha a che vedere con il fatto che i poteri forti non tollerano critiche ai dogmi del libero mercato, della globalizzazione, della preminenza della finanza e della meritocrazia (che è cosa ben diversa del riconoscimento dei meriti): chiunque non li accetti è un nemico del progresso e della democrazia, per non dire della governabilità.
Quello che Farage, Le Pen e Grillo hanno capito è che si è aperto un enorme spazio per chi si opponga, anche solo retoricamente, a quei dogmi. Uno spazio lasciato libero dalla sinistra: sia dalla pseudo-sinistra buonista e benpensante (e liberista) sia dalla sinistra pseudo-radicale e gruppettara (e incapace di darsi priorità). Entrambe queste sinistre hanno rinunciato al populismo. Che invece è diventato l'unico strumento efficace contro l'egemonia dei media, del consumismo, della pubblicità. Anche i media praticano la demagogia, però in una forma differente: non si rivolgono infatti a delle comunità bensì direttamente ai singoli soggetti che ne fanno parte, milioni o miliardi di persone isolate, un approccio impensabile senza le tecnologie digitali. Il liberismo non ha “popoli” a cui riferirsi: punta anzi a dissolverli nel doppio mito della globalizzazione e dell’individualismo. Ovvio dunque che Renzi abbia rinunciato al populismo, come già Berlusconi: gli basta il controllo dell’informazione. Demenziale è che ci abbia rinunciato la sinistra vera, quella che vuole eguaglianza e cambiamenti e che non ha e mai avrà l’appoggio di chi ha denaro e dunque controlla i grandi network.
L’internazionalismo andava bene quando il capitalismo era nazionalista. Oggi ai ricchi e alle loro imprese conviene appunto la globalizzazione e sotto attacco non sono più le libertà individuali bensì i beni comuni. Malgrado l’incessante propaganda, la gente comincia ad accorgersene, sulla sua pelle. E mi pare inevitabile che, vista la situazione, sia portata a pensare che l'unica autentica opposizione a una plutocrazia resa aggressivo e arrogante dalla sua onnipotenza e anche dai suoi catastrofici fallimenti, sia l’estrema destra. È un tragico abbaglio, naturalmente: la destra fa sempre il gioco dei potenti, e neanche lo nasconde. Però non la si combatte con il disprezzo e tanto meno con gli anatemi, dei quali ormai il monopolio ce l’hanno i media, che li usano, state sicuri, nel solo interesse dei loro padroni. Le tentazioni fascistizzanti le si combatte facendo uscire la sinistra dai salotti della casta e dai grattacieli dei supermanager, e anche delle sedi delle troppe organizzazioni di nicchia, impegnate nella lotta per diritti civili spesso sacrosanti ma ciascuna per conto proprio, se non l’una contro l’altra, del tutto disinteressate alla gente nel suo insieme, solo ad alcune categorie.
È positivo che nei mesi scorsi numerose riviste e giornali americani abbiano dedicato copertine, servizi e editoriali al ritorno del populismo democratico negli Stati Uniti (“Time for a Populist Revival!” era il titolo di The Nation) e che la proposta sia sfociata in un recentissimo convegno sul tema (“The New Populism Conference”) con la partecipazione delle voci più progressiste del Senato americano, Elizabeth Warren e Bernie Sanders. La sinistra deve tornare a rivolgersi e identificarsi con il popolo, che anche se nessuno lo nomina più, esiste ancora ed esisterà sempre, almeno sinché la specie umana conserverà il suo bisogno di socialità e di civiltà.
Chiuso in carcere, in un’Europa che si stava spostando sempre di più verso il fascismo, Gramsci ribadì che i due primari obiettivi di quello che chiamava il “nuovo principe”, ossia il partito in grado di lottare per una società più giusta, erano la “formazione di una volontà collettiva nazionale popolare” e la “riforma intellettuale e morale”. Entrambe restano esigenze essenziali e qualificanti per una sinistra che voglia restare di sinistra. Contro coloro che vogliono relegarla al ruolo di alternativa liberista moderata, da usare in caso di emergenza, quando i sistematici soprusi delle grandi corporation diventassero intollerabili o controproducenti, contro una sinistra preoccupata solo della governabilità e della propria immagine, dei fund raising e degli indici di gradimento, serve una sinistra autenticamente popolare. Capace di populismo.