Silvia Romano, la giovanissima educatrice lombarda di Africa Milele rapita in Kenya e detenuta in Somalia, è stata liberata pochi giorni fa dopo diciotto mesi di prigionia. I primi scatti del suo rientro a Roma, tra familiari e rappresentanti dello stato, hanno scosso il web, distraendo milioni di utenti dei social network da settimane di informazione dedicata all’epidemia covid. Se il lieto fine ha inizialmente commosso gli italiani senza eccezioni, la veste somala così mortificante al gusto occidentale, la scelta del nome Aisha, come la sposa bambina del profeta Maometto, e la conversione alla religione islamica hanno turbato molti. Ingratitudine, debolezza, sindrome di Stoccolma? Chi ha pagato? Ed era poi giusto pagare? Fiumi di inchiostro virtuale, poche risposte certe: qualsiasi conclusione era ed è prematura. Nel caos, ho preferito tacere. Un giornalista ha il dovere di informare e soprattutto di non disinformare, anche quando affida poche battute a caldo a un post confidenziale di Facebook. Di non confondere le idee, di non aizzare i lettori, di lasciare il naturale bagaglio di pregiudizi alla porta, mitigando le emozioni e vagliando i fatti.
Nescio: io non so. Non so cosa significhi aiutare il prossimo in una baracca di lamiera del Kenya perché di Malindi conosco il volto dorato dei resort di lusso, non so cosa significhi essere rapita, non so cosa significhi vivere in una stanza spoglia, tra sconosciuti che non parlano la mia lingua e con il solo Corano tra le mani, a migliaia di chilometri dai miei affetti, dai luoghi del cuore, da ciò che riconosco come mio e che chiamo casa. Non so neppure come sarei scesa da un aereo a Ciampino. Tramortita? Sorridente? Cupa? Nera di rabbia o trionfante, buddista, vegetariana, aggrappata a un dio non mio, senza dio, con un altro nome? Non sapendo non ho detto la mia, che in questo caso sarebbe stata trascurabile. Ma ho sentito, e ahimè letto, di tutto. Chi la crede incinta e dunque complice di un maschio carnefice e padrone, chi ne evidenzia con stizza il volto rotondo, non scavato, chi si sente tradito dalla conversione, chi l’ha vista sorridere e non può perdonarglielo: chi sorriderebbe mai dopo mesi, anni di agonia? Decine di migliaia di opinioni non richieste, affrettate e sgradevoli.
Perché tutti parlano? Tutti sembrano sapere. I social network sono vetrina e megafono anche degli ultimi tra gli ultimi, il cui rancore solo vent’anni fa non superava la soglia del bar sport di quartiere e divertiva i compagni di briscola. Che Aisha sia musulmana non è cruciale. La sua veste verde è un pretesto. Silvia è qualcuno cui indirizzare la propria furia cieca, avanti il prossimo. Domani un account anonimo con pochi follower e molte bandierine tricolori lancerà un nuovo allarme: senegalesi hotel cinque stelle vergogna fai girare, Bill Gates, le scie chimiche. Pochi verificheranno, confermeranno o smentiranno, gli altri raglieranno al cielo, indignati di professione e indignati a comando, la bava alla bocca come cani rabbiosi. La calunnia viaggia rapidissima, l’odio per il diverso attecchisce senza difficoltà. Tempo e indagini ci diranno della Romano, sveleranno molti perché, potremo dire la nostra con cautela, ma sempre con garbo. Un garbo ormai in via di estinzione. Adesso rivendico il diritto di ignorare, e dunque di astenermi da giudizi affrettati e analisi sommarie. Rivendico il diritto di tacere, non per indifferenza, ma per rispetto. Rivendico il diritto di non sapere, punto di partenza per costruire un’opinione.