Un mese e mezzo fa, al momento dell’arresto a Londra di Julian Assange dentro l’ambasciata dell’Ecuador, avevamo avvertito i nostri lettori che, a prescindere su quel che si pensa del fondatore di Wikileaks, le ripercussioni sulla libertà di stampa negli Stati Uniti sarebbero potute essere devastanti. Bisognava allora ancora vedere i capi d’accusa emessi dal dipartimento di Giustizia americano nei confronti di Assange, e solo allora avremmo capito quanto.
Bene, ieri questi sono saltati fuori e le scosse che si sono abbattute sulla libertà di stampa protetta dal Primo Emendamento della Costituzione, equivalgono ad un terremoto del decimo grado. Mai prima d’ora era successo che un “publisher” (si, Assange, antipatico o no, è un editore) fosse stato incriminato con l’”Espionage act”, la legge sullo spionaggio. Una legge vecchissima, che aveva certamente colpito nel passato funzionari governativi sorpresi nel fornire informazioni “top secret” a paesi stranieri o anche a giornali americani, ma che mai era stata portata avanti nei confronti di un Editore o di un suo giornalista. Ovvero, quando ci provò Richard Nixon ai tempi dei “Pentagon Papers”, declamando una questione di “sicurezza nazionale”, fu stoppato subito dalla Corte Suprema, che nel 1971, sentenziò che la decisione dei pubblicare o meno un documento segreto di cui un giornale fosse venuto in possesso (ricevendolo soltanto e non complottando per averlo) sarebbe stata esclusiva del publisher e che l’esecutivo non poteva mai bloccare un giornale dal rendere pubblico il documento. La pubblicazione dei Pentagon Papers (la verità e nient’altro che la verità sulle bugie USA che scatenarono e continuarono la guerra in Viet Nam) mise una volta per tutte la Casa Bianca davanti alla inevitabile scelta di smettere di mentire e terminare il conflitto.
Quindi il Dipartimento alla Giustizia di Trump fa un salto “di qualità” e di quelli notevoli, spingendosi dove nemmeno Barack Obama (che ha contribuito e non poco a far partire la stretta contro i giornali che pubblicano documenti segreti) si era azzardato. E cioè a mettere in discussione la sentenza della Corte Suprema che appunto nel 1971, non scagionava certo Daniel Ellsberg per aver “fornito” i documenti segreti al New York Times (il Chelsea Manning o Edward Snowden della situazione di oggi) ma si ergeva con il Primo Emendamento a scudo protettivo nei confronti della libera stampa.

D’altronde, ne siete sorpresi? Ma non era Trump che twittava “giornalisti nemici del popolo?” Chi pensava ancora che quello che twitta l’attuale “Commander in Chief”, siano soltanto sparate per restare sempre al centro dell’attenzione, e non calcolati manifesti ideologici su tutto quello che il capo vorrà ottenere una volta assicurato il potere, come in un “Mein Kampf” trumpiano del XXI secolo, é servito.
Ma adesso? Che si fa? Aspettare inermi che Trump distrugga la libertà di stampa e la democrazia in America?
Quei giornalisti e editori che per tutto questo tempo hanno avuto l’atteggiamento del chissenefrega dell’antipatico Assange, anzi ben gli sta, dovrebbero finalmente aver compreso che sono di colpo tutti il bersaglio della furia del potere trumpiano contro chiunque abbia la pretesa di voler diffondere qualcosa di simile alla verità. L’incriminazione di Assange con l’”Espionage Act”, equivale ad una minaccia da boss mafioso, che colpisce l’obiettivo più debole e isolato in quel momento, per non lasciare dubbi a tutti quelli che restano in piedi davanti al delitto: ecco, guardatelo pure l’assassino, e ricordate la legge suprema della mafia, “l’omertà”, altrimenti alla prossima toccherà a voi.
Così Julian Assange di colpo sta alla libertà di stampa come Salvatore Colasberna, quel personaggio inventato da Leonardo Sciascia nel capolavoro Il giorno della Civetta, stava alla pazzia di voler restare un imprenditore libero in un paese siciliano infestato dalla mafia. Nell’America sognata da Trump, non c’è più spazio per i giornali che vorrebbero restare liberi nella ricerca della verità. Tutto deve essere fake, e chi invece potrebbe apparire ancora “credibile”, dovrà essere distrutto.
Ora che la minaccia del boss è arrivata a destinazione, è ormai troppo tardi per reagire? In una democrazia come quella americana, dove la legge, quindi la Costituzione, ha da sempre avuto l’ultima parola, non si dovrebbe aver paura di un bullo liberticida come Trump. Ma il Congresso continua a dimostrarsi diviso, tentennante, quindi ad apparire pavido difronte al trumpismo. Allora non resta che la speranza nella Corte Suprema. Già, nominati da Trump permettendo….